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Le sindromi depressive collegate alla pandemia, su cui è difficile avere dati certi, ma che cominciano a essere analizzate dagli studi scientifici. Il punto sulle attuali terapie di contrasto al Covid-19, con un focus approfondito su anticorpi monoclonali e farmaci antivirali. Poi ancora: la dimensione attuale del contagio, partendo da una prospettiva locale che si allarga a quella globale. E infine le sfide al sistema sanitario nazionale imposte da due anni di pandemia e i nervi scoperti dell’attuale organizzazione sanitaria.
Una visione a 360 gradi quella offerta dai tre relatori ospiti del webinar che si è svolto martedì scorso, 19 aprile 2022, organizzato dall’OMCeO veneziano, sotto la guida scientifica del presidente e vice nazionale Giovanni Leoni. Un approfondimento che ha avuto un ottimo riscontro di partecipazione: oltre un’ottantina i medici e gli odontoiatri che sono rimasti collegati per tutta la durata del seminario on line.

[Appena possibile saranno pubblicate anche le slides dei relatori]

Ad aprire i lavori Diego De Leo, professore emerito di Psichiatria alla Griffith University di Brisbane in Australia, che, subito dopo aver spiegato come «lo scenario è in continua mutazione: ci aspettiamo un aumento della depressione correlata al Covid», ha tracciato un quadro della diffusione del disagio mentale da cui è affetto il 4% della popolazione mondiale, con punte di oltre il 5% in Italia e oltre il 6% in Europa.
Ha poi sottolineato le differenze tra i sessi, a tutti i livelli la depressione colpisce più le donne che gli uomini, quella tra le classi d’età – all’aumentare dell’età non aumenta la prevalenza, anzi decresce dopo i 65 anni – e quella tra nazioni. «Ci sono Paesi ricchi – ha spiegato – come Lussemburgo, Germania e Portogallo con alti tassi di disagio e altri più poveri, come la Repubblica Ceca, con livelli molto più bassi, inferiori anche di 3 volte».
A spiccare, infine, il dato, preoccupante, dell’ascesa di sindromi depressive tra i più giovani, tra i 16 e i 19 anni, quelli sulla speranza di vita, scesa di 1,4 anni per gli uomini e di un anno per le donne a causa della pandemia, e sull’eccesso di mortalità legato a demenze, patologie cardiache e diabete.
Parlando di sindromi depressive nell’ambito pandemico, se ne possono individuare 4 tipi:

  • quelle connesse direttamente al Covid;
  • quelle correlate all’isolamento sociale e alla paura di contagiare gli altri;
  • quelle dovute al lutto per la morte di un familiare o di un amico;
    quella derivate dalle mutate condizioni di vita.

«L’anno scorso – ha aggiunto – è stato presentato un rapporto che sottolineava la presenza di sintomi di rilevanza neuropsichiatrica a 3 mesi dal contagio da Covid: dalla più comune astenia alla nebbia mentale, alla cefalea, alla perdita dell’olfatto e del gusto. Alcuni studi hanno sottolineato come la depressione fosse frequente nei casi di contagiati, ne colpisce un terzo, così come l’ansia e i distrubi del sonno. Tra le fasce più sensibili: gli adolescenti, le donne, gli anziani e gli operatori sanitari».
Nella seconda parte del suo intervento, il professor De Leo ha passato in rassegna alcuni studi recenti che hanno approfondito:

  • l’impatto di chi ha avuto la prima diagnosi di depressione proprio a cuasa del Covid;
  • la correlazione tra la gravità della malattia e la ripercussione a livello neurologico e psichico;
  • la diffusione di sindromi depressive anche maggiore di 3 volte rispetto al pre-pandemia e ancora più ampia con altre forme di malattie severe;
  • le differenze sui distrubi cognitivi in pazienti Covid e non Covid che hanno vissuto l’esperienza, sempre dura, della rianimazione;
  • le reazioni dei pazienti contagiati in forme non gravi e curati a domicilio con un dato a sorpresa per gli asintomatici che sarebbero a minor rischio di ansia e depressione anche rispetto a chi non ha avuto il Covid;
  • l’impatto, devastante, della pandemia sui pazienti psichiatrici «che – ha sottolineato lo psichiatra – quasi tutti, hanno patito una recrudescenza dei sintomi non potendo avere contatti regolari con i loro curanti».

Ad aggiungere trauma a trauma, l’impossibilità di dare l’ultimo saluto a un proprio caro vittima del Covid e l’impatto della successiva crisi economica, magari con la perdita del lavoro e del proprio ruolo sociale.
«Un fattore devastante per molte persone – ha concluso il professor De Leo – è stata la solitudine, che va distinta dall’isolamento sociale ed è un mediatore importante di depressione, fino al suicidio. La solitudine è qualcosa di più, una sensazione che ci si porta dentro pensando di non poter essere capiti o veramente conosciuti dagli altri o che le relazioni che si hanno non sono quelle che si erano desiderate. Un elemento di studio importante che causa costi socio-sanitari rilevanti».

La seconda parte della serata è stata affidata al dottor Sandro Panese, direttore delle Malattie infettive dell’Ulss 3 Serenissima, per fare un punto sulle terapie più efficaci, oggi, nel contrasto al Covid-19, soprattutto all’inizio dell’infezione, cioè gli anticorpi monoclonali e i farmaci antivirali, la cui somministrazione si decide sempre più spesso con i colleghi delle USCA e con i medici di famiglia.
Il relatore ha aperto il suo intervento illustrando brevemente alcuni dati grezzi sulla mortalità legata al virus, su scala locale e globale: «I decessi in Italia – ha sottolineato – nella fase iniziale, a inizio 2020, erano tre volte quelli attuali. Andiamo meglio, dunque, ma il dato resta molto preoccupante: il Covid uccide ancora 12-15 volte di più dell’influenza».
Tre i fattori determinanti per questo crollo della mortalità: innanzitutto i vaccini, il più importante, un attento uso dei presidi in fase precoce di malattia e una migliore e più esperta gestione clinica della patologia nelle sue forme gravi.
Il dottor Panese ha poi sintetizzato le fasi delle malattia – la prima, che dura 3-5 giorni quando il virus si replica attivamente, la seconda quando, con la tempesta citochimica, si evolve in forma severa – i sintomi, da quelli simili a quelli dell’influenza che determinano il quadro clinico a quelli meno frequenti ed extrapolomonari, come le miocarditi, e le complicanze che vedono alla forma virale sovrapporsi una forma batterica, da curare con azioni combinate.
«Molti dei meccanismi di sviluppo della forma severa di malattia – ha spiegato – sono dovuti alla capacità e all’intensità con cui il virus si replica: se il virus ha un’elevata replicazione, c’è una maggiore probabilità che si inneschino quei meccanismi che portano ad interessamenti massicci soprattutto del polmone e a un rischio serio di morte. Se invece il nostro sistema immunitario è in grado di sviluppare una reazione capace di contenere la replicazione virale è molto più probabile che la malattia evolva in una forma più lieve, con esito di guarigione».
Bloccare subito la replicazione del virus perché la patologia non evolva in una forma severa è, quindi, l’obiettivo primario, soprattutto per le persone fragili che non hanno una sufficiente risposta immunitaria: obiettivo che oggi si raggiunge attraverso l’uso dei farmaci antivirali o degli anticorpi monoclonali.
Il dottor Panese ha quindi approfondito le caratteristiche, la posologia, i contesti di utilizzo, i benefici e i possibili effetti collaterali dei medicinali attualmente in commercio:

  • gli antivirali a uso orale, cioè il Paxlovid (Ritonavir) – «che è composto da due principi attivi, che è quello che funziona meglio in fase precoce di malattia e che, se somministrato nei primi 3 giorni di infezione, ha un’efficacia dell’87%», ha detto – e il Lagevrio (Molnupiravir), che riduce di oltre il 50% il rischio di ospedalizzazione e il decesso;
  • l’antivirale Remdesivir che però si somministra per via endovenosa in ospedale;
  • l’anticorpo monoclonale Sotrovimab, da somministrare a pazienti non vaccinati o che non abbiano una protezione anticorpale propria, l’unico che ancora funziona sulla variante Omicron contrassegnata da una trasmissibilità molto elevata ma anche da una patogenicità molto inferiore rispetto alle varianti precedenti, anche grazie all’alto livello di immunità raggiunto dalla popolazione.

«Il percorso decisionale per la scelta di queste terapie – ha aggiunto – non può essere un percorso da ragionieri, ma deve essere una valutazione clinica attenta in cui si devono analizzare e valutare tutte le caratteristiche del paziente per fare la scelta più opportuna in considerazione dei vari fattori di rischio. La finestra di utilizzo è breve: io mi trovo a dover scegliere su un paziente che, magari, ha ancora sintomi modesti e non posso sapere se andrà o no verso una forma severa. Quello che posso fare, però, è valutarlo con grande attenzione per capire se la persona appartiene a una categoria a rischio. Se è così, dandogli uno di questi farmaci, gli riduco enormemente la probabilità di andare incontro a una forma grave di malattia».
Da considerare con attenzione, infine, anche l’interazione di questi farmaci con altri che, magari, il paziente già assume per altre patologie. Per avere un quadro chiaro della situazione e risposte rapide ed efficaci, il dottor Panese ha suggerito l’uso del sito www.covid19-druginteractions.org dell’Università di Liverpool che consente con pochi clic – e anche attraverso un’App da scaricare sullo smartphone – di verificare le interazioni farmacologiche e di avere report dettagliati.
«Guardando le curve dei nuovi casi giornalieri e della mortalità – ha concluso Sandro Panese – l’andamento è sempre stato lo stesso. Se c’è stata una differenza nell’ultimo periodo, questo è dovuto ai vaccini».

Il punto sulla diffusione della pandemia e le sfide che la sanità si ritrova ora ad affrontare, alla luce delle criticità emerse, i temi affrontati dall’ultimo ospite della serata: il dottor Guido Sattin, direttore sanitario dell’Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione di Motta di Livenza.
«Ci sarebbe voluto un manuale per affrontare la pandemia – ha detto subito – ma il manuale ce lo siamo costruiti da soli un po’ per volta». Poi ha illustrato i numeri della pandemia – 504 milioni di casi, più di 6 milioni di morti e 11 miliardi di vaccinazioni – e passato in rassegna le date essenziali e le immagini indimenticabili legate agli ultimi due anni: dal primo focolaio di polominiti a Whuan alla dichiarazione dello stato d’emergenza in Italia, dall’arrivo del Covid e dei primi morti nel nostro Paese al lockdown, dalla dichiarazione della pandemia da parte dell’OMS alle bare di Bergamo, a Papa Francesco solo in piazza San Pietro, sotto la pioggia.
Per illustrare, poi, l’andamento della pandemia nel mondo durante le varie fasi, il dottor Sattin è tornato ad affidarsi, come già fatto nei webinar precedenti, alle sue mappe realizzate a partire dai dati forniti dalla John Hopkins University, da cui, grazie ai diversi colori dei paesi, si intuisce chiaramente nell’ultima fase l’arrivo quasi contemporaneo della variante Delta dall’Est Europa e della Omicron dalla Gran Bretagna. «Oggi – ha sottolineato – il contagio è concentrato in Europa, nell’Asia Orientale e in Oceania».
Il relatore si è poi soffermato su un altro tema peculiare, l’andamento della mortalità, sottolineando come sia un dato difficile da valutare. Prendendo però in esame le cifre sulla mortalità in eccesso, cioè la differenza tra il numero di morti registrate per tutte le cause e il numero previsto in base alle tendenze precedenti, un quadro si può tracciare con l’Europa che ha sperimentato due cicli completi di eccesso di mortalità – tra marzo e maggio 2020 (raggiungendo un tasso di eccesso del 25,1% in aprile) e tra agosto 2020 e febbraio 2021 (raggiungendo un tasso di eccesso del 40,6% in novembre 2020) – e l’Italia con i dati più critici in Lombardia.
«Il forte aumento della mortalità dovuto al coronavirus – ha aggiunto – ha portato con sé un calo della speranza di vita scesa a 82 anni, 1,2 anni in meno rispetto al 2019. Un calo che varia a seconda delle Regioni: dal massimo di -2,6 anni registrato in Lombardia al minimo di meno mezzo anno della Calabria».
Scendendo ancora più su scala locale, il dottor Sattin ha evidenziato le differenze sull’eccesso di mortalità tra aree diverse del Comune di Venezia con tassi altissimi a Favaro e Marghera e molto più bassi, invece, in centro storico e isole.
L’ultima parte della relazione del direttore sanitario di ORAS è stata, infine, dedicata alle criticità latenti del sistema sanitario, esplose in modo drammatico durante i due anni di pandemia e alle sfide che ora bisognerà affrontare. Sfide che non riguardono solo la medicina del territorio, le case di riposo o gli ospedali, ma anche la formazione, la ricerca, la cronica carenza di personale, gli stipendi inadeguati.
«Il punto cruciale – ha spiegato il dottor Sattin – è il finanziamento del sistema sanitario e del welfare. Con la pandemia l’organizzazione in ospedali hub, spoke e ospedali di rete è saltata: si chiudevano le strutture per proteggere i pazienti. Stop alle visite e agli interventi chirurgici, pochi posti letto disponibili e carenza di riabilitazione specialistica che ha allungato la degenza dei pazienti dopo il Covid».
Sul fronte ospedaliero, dunque, va ripensata l’architettura stessa delle strutture per avere reparti più piccoli e più facili da isolare, stanze con meno letti, percorsi più flessibili per separare i flussi, sistemi all’avanguardia per i ricambi d’aria e le sanificazioni.
Uno sguardo, poi, anche al territorio «con i medici di famiglia – ha detto – che si sono trovati spesso soli ad affrontare la pandemia, a fare diagnosi e terapie senza il supporto degli specialisti, costretti a sospendere i servizi dedicati alla cronicità». E non è andata meglio sul fronte delle case di riposo che hanno visto importanti problemi nel contenimento del contagio e mostrato difficoltà notevoli sia dal punto di vista organizzativo che economico, con ripercussioni pesanti, poi, sugli ospedali.
Tra le sfide più importanti, infine, che la sanità dovrà afforntare, anche attraverso una migliore programmazione dei corsi di studio, c’è quella, annosa, della carenza di personale, medici e infermieri soprattutto, sempre più in fuga verso il pensionamento o le strutture private, sempre più insoddisfatti di contratti e stipendi, sempre più stanchi e stressati per i turni infiniti e l’accumulo di ferie e straordinari.
«Cosa abbiamo imparato – si è chiesto infine Guido Sattin – dalla pandemia? Per prima cosa la flessibilità, intesa come capacità di adattarsi per rispondere meglio alle esigenze dei pazienti». E poi ancora la necessità di:

  • rafforzare le cure primarie;
  • ripensare la struttura architettonica e quella organizzativa sia per gli ospedali sia per il territorio;
  • ripensare il ruolo delle RSA;
  • programmare la formazione universitaria sulla base dei bisogni reali del Sistema Sanitario;
  • adeguare i contratti e rivedere le progressioni di carriera;
  • imparare a comunicare il rischio e le problematiche senza creare confusione e inutili tensioni e paure.

«In sintesi – ha concluso – dobbiamo finanziare in maniera adeguata il Sistema Sanitario e il Welfare. La direzione, però, per ora non è quella giusta: secondo le previsioni, infatti, la spesa sanitaria in percentuale rispetto al PIL scenderà progressivamente fino ad essere, nel 2024, inferiore a quella del pre-pandemia. Se così si fanno le riforme...».

Se, insomma, si va verso un graduale ritorno alla normalità, sono tante e di natura diversa le ripercussioni che il Covid-19 ha portato con sé: riguardano i cittadini, in primis, alle prese con difficoltà economiche e con importanti conseguenze di salute, legate ai danni dell’infezione e alle prestazioni saltate. Ma riguardano anche gli operatori sanitari e l’intero sistema da riorganizzare. C’è molto da fare, senza dubbio. Obiettivo: una sanità diversa, più efficiente e che non si ritrovi impreparata di fronte a una nuova emergenza.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia