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Cure di qualità e più appropriate, riducendo il più possibile le prestazioni non davvero necessarie, significano più benefici per il paziente, accorciamento delle liste d’attesa, ma anche limitare l’impronta ecologica dei servizi sanitari. Un ambiente più sano, dunque.
E poi, se da una parte c’è grande consapevolezza della centralità delle sfide green, che anche medici e odontoiatri devono affrontare se vogliono essere parte viva e attiva, veri protagonisti della società civile in cui vivono, dall’altra sono enormi le difficoltà a tradurre nella vita professionale quotidiana le buone pratiche di sostenibilità, spesso per motivi legati alla natura organizzativa stessa del sistema sanitario.
E infine il rapporto di fiducia tra medico e paziente, da rifondare e consolidare, un rapporto fatto di ascolto, dialogo e attenzione reciproche, per accettare l’uno le motivazioni dell’altro. E fidarsi davvero.
Sono queste le tre grandi direttrici su cui si è mosso sabato 23 settembre il convegno di Venezia in Salute – #VIS2023, dedicato alla Qualità e responsabilità delle cure per un futuro sostenibile, organizzato dall’OMCeO lagunare con la sua Fondazione Ars Medica all’Auditorium dell’M9 – Museo del Novecento di Mestre. «Tutti i giorni – ha sottolineato il presidente della CAO lagunare Giuliano Nicolin aprendo i lavori con il presidente dell’Ordine e vice nazionale Giovanni Leoni – veniamo bombardati da notizie sul nostro futuro, un pianeta sostenibile. E quindi credo che anche in ambito sanitario vada affrontato questo tema».

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«Questo evento – ha aggiunto il presidente della Fondazione Ars Medica Gabriele Gasparini illustrando il tema di #VIS2023– segue per natura quello dell’anno scorso, Curare la Terra. In questi anni abbiamo imparato che tutto è collegato: le liste d’attesa, ad esempio, sono collegate all’inquinamento e all’abuso, alla sovradiagnosi. Giusto per farsi un’idea: se la sanità fosse uno stato, sarebbe al quinto posto nel mondo per emissioni di anidride carbonica, tra Russia e Giappone».
Preso atto che non tutto l’impatto ambientale dei servizi sanitari è evitabile, il convegno si occuperà invece di ciò che può essere ridotto in termini di emissioni di CO2. «Non è – ha aggiunto – che non facciamo più sanità per non inquinare. Noi vogliamo fare la sanità fatta bene e vogliamo dire che si può migliorare di molto la nostra attività. Inquinare meno determina anche il lavorare meglio perché l’uso inappropriato di sanità è molto ampio. Molte prestazioni che noi facciamo hanno uno scarso valore per i pazienti».
Il dottor Gasparini ha quindi passato in rassegna:

  • gli standard di riferimento (l’Australia, ad esempio, sta già facendo molto);
  • le principali cause di consumo di energia da parte degli ospedali;
  • l’importanza della prevenzione, «che non si fa con un esame in più, ma con uno stile di vita corretto e partecipando ai programmi di screening»;
  • le raccomandazioni di Choosing Wisely Italy, secondo cui un esame inappropriato è «un rischio per il paziente, un costo e una fonte di inquinamento» e «se un test non risponde a una domanda clinica specifica, probabilmente meglio evitarlo»;
  • i tanti fattori che contribuiscono all’impronta ecologica della sanità, dal ricambio d’aria nelle sale operatorie al raffreddamento delle apparecchiature, dall’uso di gas anestetici alla vita troppa lunga (e poco green) di ospedali e strumentazioni, solo per fare qualche esempio.

«Serve – ha concluso il dottor Gasparini – un cambio di passo culturale: qualcosa deve scattare prima di tutto nei medici, che hanno più responsabilità, e poi anche nella popolazione».

La prima sessione del convegno, moderata da Martina Musto, medico di famiglia e vicepresidente dell’Ars Medica, ha fornito il contesto generale in cui si muovono i professionisti della sanità rispetto ai temi di Venezia in Salute: qualità delle cure da un lato e impatto sull’ambiente dall’altro.
Argomenti che il presidente dell’Ordine Giovanni Leoni ha subito inquadrato in una cornice etica e deontologica, declinando cosa sia l’appropriatezza in medicina, cioè il fare sempre la cosa giusta, e sottolineando come il Codice Deontologico della professione – tra l’altro in fase di aggiornamento – contenga già buona parte delle risposte.
Dopo aver definito i concetti di morale e di etica, in filosofia sempre strettamente intrecciati, ha spiegato come la prima possa subire mutamenti durante la storia, mentre la seconda resti più stabile nei suoi principi fondamentali che, per il medico e l’odontoiatra, sono racchiusi nel Giuramento di Ippocrate. E come, fin dall’antico testo, ci fosse già un invito all’appropriatezza: “Non opererò coloro che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di questa attività”.
«Il Codice attuale – ha poi precisato il presidente Leoni – è chiaro sull’appropriatezza sia diagnostica sia terapeutica: ogni medico giura di “non intraprendere né insistere in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, senza mai abbandonare la cura del malato”. La scelta deve essere scevra dai condizionamenti economici e indirizzata all’esperienza personale del medico, ispirata dai principi etici».
La guida dell’Ordine veneziano si è poi soffermata su alcuni passaggi: l’uso della diagnostica strumentale sempre più evoluta; l’esame obiettivo con l’importanza del tocco, del contatto fisico, durante la visita; il ruolo fondamentale della comunicazione, «che non deve essere mai dall’alto – ha precisato – ma deve avvenire con l’empatia, cioè lo sforzo di comprensione intellettuale di chi ho davanti»; la prescrizione e l’aderenza terapeutica; il concetto di sé, la ricerca dell’equilibrio terapeutico e la necessità di aggiornamento continuo che sono alla base del problema dell’etica in medicina. Tanti, allora, i consigli arrivati ai colleghi dal dottor Leoni. Ad esempio:

  • seguire le linee guida, tenendo però presente che non sono vangeli, che sono semplificazioni e vanno interpretate adeguatamente;
  • il chirurgo non si creda Dio e non prometta miracoli;
  • trovare un equilibrio tra desiderio di combattere il male e pietas: sapersi fermare quando la cura non migliora o danneggia la qualità della vita;
  • studiare sempre e conoscere la tecnologia, ma senza innamorarsene né sminuirla per scarso impegno personale;
  • diffidare delle mode;
  • conoscere i propri limiti e passare la mano a chi sa fare meglio.

«Sul fonte dell’appropriatezza dunque – ha concluso il presidente dell’Ordine – meglio evitare il criterio delle medie ponderate e determinare le cure in base alle esigenze del malato. La professione medica ci mette a contatto con le miserie dell’uomo, per farvi fronte dedicatevi al bello e coltivatelo con serenità».

Il percorso legato all’appropriatezza è poi proseguito con la relazione di Sandra Vernero, coordinatrice di Choosing Wisely Italy, che ha illustrato in modo molto chiaro gli sprechi della spesa sanitaria, i principi che guidano Slow Medicine – un’associazione che si propone di sviluppare e diffondere una visione della salute come diritto fondamentale della persona e bene comune globale e che promuove cure sobrie, rispettose e giuste – e le 305 raccomandazioni di Choosing Wisely Italy, progetto lanciato ormai più di un decennio fa “sulle pratiche a rischio d’inappropriatezza di cui medici, altri professionisti e pazienti dovrebbero parlare”.
I principi ispiratori sono chiari: se, come stima l’OMS, nei sistemi sanitari gli sprechi corrispondono a circa il 20-40% della spesa, allora «fare di più non significa fare meglio» che, nel concreto, si traduce ad esempio nell’evitare il sovrautilizzo di indagini e trattamenti – in Italia, ad esempio, si usano troppi antibiotici, risonanze magnetiche, TAC, cesarei… – e nel «cercare, dato che c’è poco tempo, di non sprecarlo – ha sottolineato la relatrice – per cose non necessarie, anche perché esami inappropriati hanno un alto rischio di falso positivo e di sovradiagnosi».
Le raccomandazioni di Choosing Wisely Italy allora permettono di individuare test diagnostici e trattamenti – dagli esami cardiologici a quelli di laboratorio all’uso dei farmaci – molto comuni in Italia, ma che, secondo evidenze scientifiche, non apportano benefici significativi ai pazienti ai quali vengono generalmente prescritti e che, al contrario, li possono esporre a rischi (tutte le schede sono disponibili sul sito del progetto e consultabili anche attraverso una APP che si può scaricare gratuitamente sul cellulare). «Questi trattamenti ad alto rischio di inappropriatezza – ha sottolineato la dottoressa Vernero – dovranno essere oggetto di aperto dialogo nella relazione tra medico e paziente per facilitare scelte sagge e consapevoli. Ascoltare il paziente per decidere insieme».
Ma anche il cittadino deve fare la sua parte, deve avere un ruolo attivo non richiedendo esami o trattamenti che il suo medico non ritiene necessari e ponendosi 4 domande qualora gli venga prescritto un esame di controllo, un farmaco o un intervento chirurgico:

  1. Ho veramente bisogno di questo esame/trattamento?
  2. Quali sono i rischi?
  3. Ci sono alternative più semplici e sicure?
  4. Cosa succede se non faccio questo esame/trattamento?

«La comunicazione con i cittadini sui temi della salute – ha concluso la relatrice – è fondamentale. Appropriatezza è fare la cosa giusta al momento giusto al paziente giusto nel tempo giusto. Noi medici, spesso, vogliamo fare per il nostro paziente tutto il possibile, ma a volte fare tutto è solo un danno. Talvolta bisogna rallentare e fermarsi».

L’impronta ecologica dei servizi sanitari è l’ultimo tassello per definire il contesto in cui lavorano ogni giorno i medici e gli odontoiatri: a questa analisi si è dedicato Antonio Bonaldi, past president di Slow Medicine, che si è soffermato sull’emergenza climatica – da lui definita «la più grave minaccia per la salute del 21esimo secolo e ciò che è stato fatto finora è del tutto insufficiente» – per spiegare poi come in realtà sia possibile ridurre l’impatto della sanità sull’ambiente.
Soluzioni pratiche ed efficaci, oggi, sono disponibili per evitare che la temperatura media globale possa superare il grado e mezzo, «compromettendo in modo irreversibile gli ecosistemi più sensibili, come le barriere coralline, le foreste pluviali tropicali e le calotte polari». Per salvare il clima, dunque, è necessario agire su tutti i fronti «in modo determinato, profondo e rapido»: energia, agricoltura, industria, trasporti, città ed edifici.
«Il settore sanitario – ha quindi sottolineato il dottor Bonaldi – contribuisce con il 5,2% al totale delle immissioni in atmosfera di gas clima-alteranti, al primo posto nei settori dedicati ai servizi. Viste le ricadute sulla salute dei cambiamenti climatici e seguendo il principio deontologico di non nuocere, i medici dovrebbero essere in prima linea nell’opera di decarbonizzazione dei servizi sanitari». Senza dimenticare poi che gli interventi per ridurre l’impronta ecologica della sanità contribuiscono anche a migliorare la qualità e la sicurezza delle cure e che la decarbonizzazione ha un impatto positivo sulla salute anche nel breve periodo: aria più pulita significa ridurre l’insorgenza di malattie respiratorie e tumori, muoversi a piedi e in bici diminuisce le emissioni ci anidride carbonica e promuove l’attività fisica riducendo il rischio di obesità, diabete e malattie cardiovascolari, come pure mangiare meno carne e l’agricoltura sostenibile.
Tre le azioni concrete, allora, da mettere in campo:

  • ridurre la domanda di prestazioni sanitarie attraverso attività di prevenzione primaria;
  • evitare le prestazioni inutili o non appropriate;
  • ridurre le emissioni prodotte durante l’erogazione delle cure

Che, nella pratica, si traduce in tanti campi di applicazione. Ad esempio:

  • sostituire le fonti di energia fossile con energie rinnovabili, massimizzare l’efficienza energetica dei fabbricati, favorire l’illuminazione e la ventilazione naturali degli ambienti, ottimizzare gli spazi;
  • sviluppare la telemedicina per ridurre gli spostamenti e impiegare mezzi di trasporto elettrici;
  • ridurre i rifiuti ospedalieri – «la maggior parte, il 75-80%, se raccolti in modo differenziato, può essere smaltita con i rifiuti urbani e riciclata», ha sottolineato il relatore – limitare l’impiego di dispositivi monouso, preferire materiali riusabili, riciclabili e rinnovabili, eliminare l’acqua in bottiglie di plastica e usare quella del rubinetto;
  • promuovere un’alimentazione sana e sostenibile, scegliendo prodotti locali, eliminando le bevande zuccherate e recuperando gli scarti alimentari o il cibo non consumato;
  • migliorare l’utilizzo di gas anestetici, «responsabili del 5% delle emissioni del settore sanitario; il desflurano, ad esempio, ha un impatto sull’ambiente 2.500 volte superiore a quello della CO2» – farmaci e dispositivi medici;
  • ridurre le prestazioni sanitarie inappropriate, inutili e perfino dannose che consumano il 20-30% delle risorse dedicate alla sanità.

«Ci sono cose – ha concluso il relatore – che si possono fare subito. Mentre per cambiare le caldaie ci vogliono tempi lunghi, per limitare l’uso del desflurano non serve aspettare il 2026: basta avere la sensibilità, mettersi intorno a un tavolo e decidere. In qualche mese si fa. I medici per ogni pratica o protocollo dovrebbero chiedersi se c’è un modo più sostenibile per farli. Negli ospedali, ad esempio, si potrebbero creare dei team green per ragionare sui temi e trovare soluzioni. Difendere l’ambiente è un dovere di tutti».

La seconda sessione del convegno, moderata da Angela Barachino, pediatra e componente del Comitato Scientifico dell’Ars Medica, è entrata più in profondità su alcuni aspetti concreti della vita professionale di medici e odontoiatri, ma non solo.
L’impronta ecologica della radiologia e le raccomandazioni di Choosing Wisely sono stati il primo tema approfondito da Gabriele Gasparini, nella sua veste di neuroradiologo e direttore della Radiologia dell’Ulss 4 Veneto Orientale. Dopo un accenno alle norme che regolano la materia e alla pericolosità dei raggi X, il presidente dell’Ars Medica ha spiegato come gli esami radiologici non giustificati siano vietati per legge e illustrato i dati, allarmanti, sul numero di quanti se ne eseguono ogni anno in Italia: 150 milioni, 2,5 per ogni cittadino.
«Il 20-50% di questi esami – ha continuato il dottor Gasparini – non sono giustificati sul piano clinico. Abbiamo cercato di fare qualcosa, ad esempio con i raggruppamenti di attesa omogenei. Ma non è sufficiente raggruppare gli esami in base alla priorità, meglio parlare di percorsi diagnostici terapeutici assistenziali, cioè la necessità di chiarire quando fare cosa, valutare meglio se fare o meno questi esami».
Sul fronte delle radiazioni ionizzanti, dunque, alcune raccomandazioni di Choosing Wisely:

  • non richiedere tomografia computerizzata (TC) coronarica per ricerca di calcificazioni coronariche (coronary calcium scoring) nei pazienti ad alto rischio cardiovascolare (leggi qui);
  • non richiedere ecocolordoppler dei tronchi sopra-aortici per vertigini, acufeni, cefalea, cervicalgia se non in presenza di segni neurologici (leggi qui);
  • non sottoporre a tomografia computerizzata (TC) o risonanza magnetica nucleare (RMN) dell’encefalo pazienti che abbiano manifestato transitoria perdita di coscienza in assenza di altri sintomi neurologici e presentino esame neurologico normale (leggi qui);
  • non eseguire Risonanza Magnetica (RM) del Rachide Lombosacrale in caso di lombalgia nelle prime sei settimane in assenza di segni/sintomi di allarme (leggi qui);
  • non eseguire di routine Risonanza Magnetica (RM) del ginocchio in caso di dolore acuto da trauma o di dolore cronico (leggi qui).

«Se vogliamo fare bene il nostro lavoro – ha concluso il dottor Gasparini – dobbiamo sapere bene cosa cercare. A volte, in medicina, il non fare ha più peso del fare. Oggi, però, se io come medico non faccio fare un esame, anche se per un motivo valido, posso essere attaccato per questa scelta. Questo atteggiamento deve cambiare».

La sfida della sostenibilità, però, non riguarda solo le grandi strutture, i grandi ospedali, i grandi centri medici. Riguarda ogni medico e odontoiatra, se davvero i camici bianchi vogliono essere parte attiva della società civile in cui vivono. Ma un ambulatorio singolo, uno studio dentistico può davvero diventare più sostenibile?
A questa domanda ha cercato di rispondere Gabriele Crivellenti, odontoiatra e consigliere dell’Ars Medica, illustrando una proposta dell’ANDI, l’Associazione Nazionale Dentisti Italiani, che prima ha creato una serie di progetti di studio, poi con Angela Rovera e Lorenzo Banducci ha messo a punto delle linee guida per il futuro ecosostenibile dello studio odontoiatrico.
In sostanza sono 7 gli ambiti in cui il dentista – ma lo stesso potrebbe fare un medico di famiglia o un pediatra… – può intervenire per rendere il suo studio più green: l’uso di energia, i viaggi (del personale, dei pazienti e dei fornitori), l’acquisto di materiali e prodotti, la produzione di rifiuti, le emissioni nell’aria, l’utilizzo dell’acqua e la contaminazione del suolo. «Il documento – ha spiegato il dottor Crivellenti – si basa sulla strategia “Plan-Do-Check-Act”, cioè pianificare, fare, controllare, agire: definire gli obiettivi ambientali, attuarli, monitorare i risultati, adottare poi nuove azioni per il miglioramento continuo».
Il tutto parametrato e correlato all’impronta di carbonio, cioè la quantità di CO2 emessa come risultato dell’attività quotidiana di uno studio dentistico: un impatto che per l’intera odontoiatria italiana si stima pari a circa 675 kilotonnellate equivalenti all’anno.
Tanti i consigli pratici: sul fronte del consumo di energia, ad esempio, migliorare l’efficienza con la ventilazione naturale, le luci led, le tecnologie rinnovabili, o più banalmente spegnendo le apparecchiature quando non si usano.
Strano a dirsi, ma sul fronte odontoiatrico, ad impattare di più, quasi il 65%, sono i viaggi. E allora il dentista potrebbe, ad esempio, combinare gli appuntamenti per uno stesso nucleo familiare, sensibilizzare i pazienti a muoversi a piedi o in bici per arrivare allo studio, preferire prodotti locali o comunque acquistarne di più con un’unica spedizione, scegliere un laboratorio odontotecnico vicino.
Ridurre gli sprechi, l’uso della carta, gli strumenti monouso, la prescrizione di farmaci – che rendono i batteri sempre più resistenti – ma anche neutralizzare il protossido di azoto, evitare le perdite di rubinetti, considerare per l’esterno la ghiaia o l’erba invece dell’asfalto e piantare alberi e fiori, tra le altre azioni consigliate per un impegno concreto sul fronte della sostenibilità.
«La sostenibilità, poi – ha concluso il dottor Crivellenti – va di pari passo con la prevenzione. Perché solo con la prevenzione si eviterà ai nostri pazienti un gran numero di trattamenti ripetuti e, di conseguenza, uno spreco maggiore di risorse ed energia, riducendo così, di molto, l’impatto ambientale dell’odontoiatria. Che sì, si può fare, integrando questo modello nella gestione dei nostri studi».

L’ultima relazione di questa sessione ha allargato un po’ lo sguardo all’intera cittadinanza: la giornalista Silvia Colombo di Ars Ambiente, infatti, ha illustrato il progetto Spesa Sballata, partito nel 2020 nei punti vendita di due grandi catene di supermercati nell’area di Varese, «che ha – ha spiegato – una valenza ambientale e una sanitaria: prevenire la produzione di rifiuti perché il rifiuto migliore è quello che non viene prodotto. A partire da un principio: il problema reale non è la plastica, ma il monouso».
In sostanza per i loro acquisti nei banchi del pane, della frutta e della verdura, della carne i cittadini hanno potuto usare contenitori riutilizzabili, portati da casa – seguendo rigide norme sanitarie – o offerte dal punto vendita: dai tupperware alle borracce per le bibite calde o fredde, dalle retine per la frutta ai sacchetti in tela per il pane.
Importanti i risultati raggiunti: da un lato sono stati eliminati 170 imballi monouso per anno per cliente e sono totalmente spariti i guanti in plastica monouso; dall’altro «non è stata registrata – ha sottolineato la giornalista – alcuna non conformità sui contenitori portati da casa dalle famiglie e non è stato riferito alcun malessere gastrointestinale per il loro uso».
Gli ulteriori passi avanti del progetto sono stati la sperimentazione nel 2022 avviata anche ai negozi di vicinato e l’allargamento della proposta alle pizzerie take away – con un contenitore riutilizzabile fornito e lavato dal negoziante con deposito cauzionale gestito in app – e ai campeggi, bed&breakfast e case vacanza.
«Gli ingredienti per il successo di questo progetto – ha concluso Silvia Colombo – sono il rispetto per le norme sanitarie e quindi la collaborazione con le autorità competenti per declinare e approvare le linee guida, il sostegno di partner istituzionali a livello locale e di associazioni territoriali e la capacità di semplificare il più possibile l’adesione degli esercenti. La sperimentazione funziona se il titolare ci crede e vuole mettersi in gioco».

È stata, infine, centrata sull’importanza della relazione e della fiducia tra medico e paziente l’ultima sessione del convegno, moderata dal presidente degli odontoiatri veneziani Giuliano Nicolin. A partire dalle sfide che aspettano all’orizzonte la medicina territoriale, la cui riforma, tanto auspicata, tarda ancora ad arrivare. «Ogni giorno è una guerra – ha raccontato subito il medico di famiglia e segretario dell’Ars Medica Enrico Peterle appellandosi al proprio vissuto professionale – i pazienti non si fidano di te, loro vanno in una direzione e tu in un’altra». Questo accade negli ambulatori, poi, però, nei sondaggi e nelle ricerche 9 italiani su 10 si fidano del medico di medicina generale. E allora?
E allora la fiducia è la chiave di tutto, una chiave molto potente. «E perché abbiamo bisogno di fiducia? Perché – spiega il medico – è una specie di vitamina che ci aiuta a vivere». La relazione del dottor Peterle si snoda, allora, tra la definizione di fiducia – che spesso implica un “trasferimento di potere” cioè un paziente che dice “decidi tu per me” – i motivi che spingono ad averne bisogno, i diversi tipi di fiducia – quella sociale, verso ad esempio le istituzioni, e quella personale, verso la persona con cui parliamo – fino alla fiducia in medicina: il malato si fida meno di se stesso e ha bisogno di affidarsi a qualcuno.
«Il fatto che le persone si fidino di noi, della nostra integrità morale – ha sottolineato il relatore – e della nostra competenza implica una responsabilità, ma anche ci rende liberi, è la base stessa della nostra autonomia professionale».
La fiducia, però, ha bisogno di tempo perché il paziente deve capire chi è il medico che ha di fronte e «può entrare – ha spiegato il dottor Peterle – nell’ambulatorio della fiducia, quello in cui può confidarsi apertamente e riesce a instaurare una bella relazione con il medico, o in quello dell’angoscia, in cui è riluttante, ha motivazioni nascoste, vuole fare tanti test ed esami. I medici stanno bene se i pazienti entrano nella stanza della fiducia, ma se entrano nella stanza dell’angoscia sono terrorizzati e condannati all’esaurimento».
Fondamentali, allora, diventano l’integrità morale del medico – l’onestà, la trasparenza, l’autonomia – e la necessità di costruire relazioni di cura attraverso la fiducia, appunto, il rispetto e la condivisione del potere. «I benefici della cura basata sulla relazione – ha concluso il dottor Peterle – sono tanti e per tutti: per i pazienti, che hanno migliori risultati sanitari e tassi di mortalità più bassi, per i medici, che hanno maggior soddisfazione lavorativa, e per l’intero sistema, che presenta meno accessi ai pronto soccorso e meno ricoveri non programmati. Una parte fondamentale nel rapporto tra medico e paziente non è tanto fare la diagnosi, quanto, appunto, la relazione, l’integrità morale, che il medico può garantire al paziente».

L’ultima relazione del convegno è stata affidata al medico, psicoterapeuta, docente IUSVE, coordinatore del Comitato Scientifico e consigliere dell’Ars Medica Marco Ballico che ha approfondito la relazione con il paziente da una prospettiva particolare: l’interpretazione di un bisogno.
Il relatore è partito allora dal chiarire cosa sia un bisogno: da un lato una specificazione, “ho bisogno di qualcosa”, dall’altro un sostantivo, uno stato di necessità, “ho fame, quindi ho bisogno di mangiare”. «Questo fa capire subito – ha sottolineato lo psicoterapeuta – come ci sia un’ambivalenza enorme tra desiderio e mancanza, tra ciò che vorrei e ciò che mi manca».
Da qui ad analizzare il bisogno di una relazione di cura il passo è breve, una relazione che comincia con la richiesta di un intervento medico: il paziente porta «un sintomo, come segno di una possibile malattia, un sospetto, una paura, un’angoscia che gli impedisce di vivere serenamente. La salute è un equilibrio ideale di cui la persona non può privarsi».
Il bisogno di una relazione di cura, però, si declina anche in un altro modo: prevenire la perdita di salute, cosa che è, da un lato, sia un desiderio sia una necessità, dall’altro un diritto. «Ecco allora – ha aggiunto il dottor Ballico – che il bisogno viene riconosciuto istituzionalmente e quando si impadronisce della persona sfugge alla pertinenza del medico, che diventa solo uno strumento per colmare i vuoti di un paziente divenuto esigente. La persona, che ha paura di avere qualcosa, ha diritto ad avere una risposta».
Il relatore è passato così ad analizzare l’inganno relazionale che ha portato da una medicina paternalistica a un processo decisionale condiviso – «ma come faccio a condividere la competenza?» si è chiesto... – all’ambito nuovo in cui si muove davvero la relazione tra il medico e il paziente: «Oggi la medicina – ha spiegato il dottor Ballico – è qualcosa che contiene sia il medico, sia il paziente. Ma allora che potere ha il medico? Nessun potere. Quindi non è un problema medico». Una trasformazione radicale che passa attraverso la medicalizzazione della società, in cui qualsiasi disagio è un problema sanitario, e che genera un complesso apparato burocratico per escludere dalla vita il dolore, la malattia e la morte.
In questa nuova complicata relazione di cura, però, servono strumenti e criteri operativi che il relatore ha offerto ai colleghi: il medico deve aiutare il paziente a mentalizzare ciò che sta succedendo, ad accettarlo, a comprendere il principio di realtà e a condividere l’impossibile onnipotenza, e può farlo attraverso:

  • l’accoglienza umana ed ambientale;
  • il tempo: gestire il tempo giusto;
  • l’ascolto, cioè la capacità di comprendere il messaggio;
  • la pazienza, come rispetto dei tempi dell’altro;
  • l’onestà, morale ed intellettuale;
  • la condivisione professionale ed emotiva;
  • l’umiltà, rifuggendo orgoglio e superbia;
  • la modestia, cioè la coscienza del limite;
  • la buona considerazione di sé;
  • il ricordare sempre che l’uomo è anche un essere spirituale.

«La continua ricerca della salute – ha concluso il dottor Ballico – come equilibrio ideale, come felicità a cui tendere, in realtà genera angoscia. La non accettabilità della realtà porta la persona a esagerare la richiesta. Il paziente così si infantilizza, diventa un bambino che punta i piedi. Chiede. Pretende. Il medico, allora, deve educare: deve educare al dolore e alla sofferenza, che sono due cose diverse, ma anche far comprendere che la felicità non è l’assenza di malattia o il tentativo compulsivo di colmare un bisogno».

Se, insomma, medici e odontoiatri devono e possono fare molto per garantire la giusta assistenza, con cure di qualità e responsabili, che impattino il meno possibile sulla salute dell’ambiente, anche i pazienti devono fare un percorso: stringere un patto di fiducia e un’alleanza con i camici bianchi per capire che se e quando arriva un no, il no è motivato. «Su questi fronti – hanno concluso Gabriele Gasparini e Marina Bottacin, presidente di OPI Venezia – c’è un problema enorme. Un pericolo reale. E anche noi sanitari dobbiamo contribuire come possiamo a risolverlo. Ognuno deve fare la propria parte».

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia