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Per curare la parodontite servono tempo, metodo e motivazione sia per i dentisti sia per i pazienti. E un rigoroso percorso a step che, però, porta risultati efficaci e che è stato illustrato nel dettaglio sabato scorso, 20 gennaio 2024, all’Hotel Nh Venezia Laguna Palace di Mestre, in un’intensa mattinata di formazione, organizzata dalla Commissione Albo Odondoiatri nazionale e dalla SIdP, la Società Italiana di Parodontologia e Implantologia, in collaborazione con gli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Venezia e di Padova.
A fare gli onori di casa, in una sala che ha fatto registrare il tutto esaurito e che ha visto la presenza anche di tanti giovani colleghi, i presidenti delle due CAO provinciali, Giuliano Nicolin e Marco De Bernardinis. «Siamo qui oggi – hanno sottolineato – per un evento nuovo e unico, che ha visto la collaborazione strategica di diverse importanti realtà. Presentiamo un progetto interessante messo a punto da CAO e SIdP per divulgare a tutti i dentisti italiani le linee guida internazionali della terapia delle parodontiti, mostrandone l’impatto nella pratica clinica quotidiana». (Qui la pagina dedicata con i materiali).
Una malattia complessa, la parodontite, di cui ancora non si sa tutto, che può avere collegamenti con le malattie sistemiche e che è ancora poco conosciuta dai pazienti. «Solo un italiano su 4, infatti, conosce la patologia e le sue conseguenze sulla salute orale e generale» hanno spiegato subito i due relatori Francesco Oreglia, dentista veronese, con attività prevalente rivolta alla parodontologia e all’implantologia e vari incarichi anche all’estero, e Francesca Manfrini, medico chirurgo, specialista in Odontostomatologia, entrambi soci attivi della SidP.

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A spingere CAO e SIdP a mettere a punto e a divulgare questo progetto Gengive sane per salvare il sorriso l’alta incidenza della patologia. «La parodontite – ha spiegato il dottor Oreglia – è ampiamente diffusa: è la sesta malattia cronica infiammatoria più diffusa al mondo e nel suo stato grave coinvolge 740 milioni di persone, l’11% della popolazione mondiale. In Italia colpisce il 50% delle persone, il 15% con forme gravi ». Una patologia, però, che viene spesso trascurata – creando costi sociali ed economici, ma anche funzionali e psicologici, molto importanti – e che avrebbe, invece, bisogno di essere intercettata il prima possibile. Una malattia che non è mai silente e da prevenire, anche perché gli strumenti ci sono.
Il relatore, anche con il supporto di numerosi casi clinici, ha quindi passato in rassegna:

  • l’incidenza della patologia, che parte dai 30 anni e ha il suo picco intorno ai 40;
  • le differenze tra le diverse malattie parodontali, che insorgono in età diverse e portano a disabilità differenti;
  • l’importanza dei fattori che si possono o non si possono modificare: gli stili di vita nel primo caso, l’epigenetica nel secondo;
  • le interazioni – anche qui spesso poco considerate – con malattie sistemiche come il diabete e le cardiopatie;
  • la nuova classificazione internazionale che permette di identificare lo status del paziente, attraverso l’individuazione di stadi, legati alla gravità della patologia, e gradi, legati al rischio di progressione, lento, moderato o rapido.

«Le terapie che abbiamo, però – ha aggiunto il dottor Francesco Oreglia – sono efficaci: risolvono la malattia nel 75% dei casi e nel 20% ne ritardiamo la progressione. Così si mantengono i denti. Certo, i casi più gravi hanno bisogno di cure più costose e complesse, talvolta anche chirurgiche». Da qui l’importanza delle linee guida – basate sull’evidenza scientifica – che servono a:

  • implementare terapie efficaci;
  • migliorare la capacità diagnostica;
  • ridurre l’epidemiologia;
  • aiutare professionisti, spiegando ad esempio al clinico come fare le cure, e cittadini;
  • ridurre l’impatto sociosanitario della patologia;
  • ridurre i contenziosi.

Contro la parodontite, insomma, serve metodo e quello messo a punto da CAO e SidP è un percorso – lungo – composto da 4 step di cura:

  1. la corretta igiene orale domiciliare da insegnare al paziente, la modifica dei fattori di rischio (ad esempio il fumo) e la strumentazione sopragengivale;
  2. le terapie aggiuntive e la strumentazione subgengivale;
  3. la rivalutazione dopo i primi 2 step per capire se si sono ottenuti risultati, la ristrumentazione non chirurgica o chirurgica per correggere i difetti causati dalla malattia parodontale e raggiungere gli obiettivi terapeutici;
  4. la terapia parodontale di supporto (TPS) che va fatta per tutta la vita «perché – ha sottolineato l’esperto – se la malattia è cronica, io curo il paziente, ma poi lo devo anche mantenere sano. Devo fare prevenzione per sempre».

Alla dottoressa Francesca Manfrini, poi, il compito di entrare nel dettaglio dei primi 2 step del percorso terapeutico, partendo dalle strategie per motivare il paziente a seguire le indicazioni del dentista per passare poi agli obiettivi da raggiungere in questa fase.
Stabilita una diagnosi corretta di parodontite, lo step 1 consiste nel controllo del biofilm sopragengivale domiciliare, nella rimozione meccanica professionale della placca e dei depositi mineralizzati e nel controllo dei fattori di rischio, come fumo, diabete o assunzione di farmaci.
«Questa è una fase delicata – ha spiegato la relatrice – soprattutto nel rapporto con il paziente, che deve diventare parte attiva del percorso, che dobbiamo istruire a una corretta meccanica dell’igiene orale, a cui dobbiamo consigliare gli adeguati strumenti di pulizia, dallo spazzolino allo scovolino al rilevatore di placca, e che dobbiamo convincere all’autocontrollo. Dobbiamo dare tempo al paziente di prendere consapevolezza e di cambiare abitudini di vita: non è facile assumere nuove manovre, tempi e strumenti d’igiene».
La strategia motivazionale passa, dunque, per la valutazione iniziale del paziente, per capire cosa faccia per la sua igiene orale, per la definizione degli obiettivi, la pianificazione di come raggiungere questi obiettivi, l’insegnamento al paziente dell’automonitoraggio per verificare se le manovre d’igiene che compie siano corrette e se ci sia miglioramento dei segni clinici.
I fattori di rischio da valutare possono essere:

  • sistemici, come il diabete e allora diventa fondamentale la collaborazione con il medico di famiglia o con il diabetologo;
  • comportamentali, come il fumo, che può essere ridotto o annullato;
  • locali, cioè specifici nella bocca del paziente.

Lo step 2 della terapia parodontale prevede, invece, la strumentazione sottogengivale, manuale o meccanica, per rimuovere i depositi, nel rispetto dei tessuti molli e duri, e le eventuali terapie aggiuntive. Tra queste ultime, quelle che le linee guida suggeriscono di non usare affatto sono la fotodinamica, il laser e gli antibiotici sistemici. Quelli locali, invece, possono essere utilizzati, così come la clorexidina, seppur per un tempo limitato.
Con questi 2 step gli obiettivi da raggiungere sono l’assenza di tasche superiori o uguali a 5 millimetri con sanguinamento a sondaggio e nessuna tasca profonda 6 millimetri. «Alla fine della fase 2, dunque – ha concluso la dottoressa Manfrini – dobbiamo rivalutare il paziente: se non sono stati raggiunti i risultati, si passerà allo step 3, alla fase chirurgica. Se, invece, c’è un buon controllo di placca, un sanguinamento sceso sotto il 10%, le profondità di sondaggio inferiori a 5 millimetri e nessun interessamento delle forche allora possiamo considerare il paziente stabile e inserirlo nello step 4, nella terapia di supporto».

Il percorso per la cura delle parodontiti prevede, allora, nella terza fase la ristrumentazione non chirurgica o quella chirurgica, con l’indicazione di «cercare sempre – ha detto il dottor Oreglia – di minimizzare l’atto chirurgico». CAO e SidP hanno messo a punto moduli e checklist che possono aiutare i team odontoiatrici ad essere più efficienti e che riguardano la pianificazione dell’operazione, le verifiche e la preparazione, l’intervento in se stesso e il post operatorio.
La chirurgia parodontale può essere a lembo d’accesso, resettiva o rigenerativa «e si fa solo – ha sottolineato il relatore – se si ha un controllo infiammatorio opportuno, altrimenti faccio più danno che beneficio: se l’infiammazione è superiore al 20% non si deve operare».

Ultima fase del percorso terapeutico è la terapia di supporto, meglio se personalizzata. Sono 3 i possibili scenari che si aprono a questo punto:

  1. una parodontite stabile trattata con successo;
  2. una parodontite stabile con infiammazione gengivale;
  3. una parodontite instabile, per cui serve il ritrattamento.

«La terapia di mantenimento – ha sottolineato la dottoressa Manfrini, presentando alcuni casi clinici – è a vita per questi pazienti e va assolutamente promossa. Serve a mantenere stabili tutti i risultati raggiunti negli step precedenti. È fondamentale per la stabilità parodontale a lungo termine, per i potenziali ulteriori miglioramenti dello stato parodontale e per intercettare eventuali recidive in una fase iniziale. Il paziente parodontale non può mai essere considerato guarito autosufficiente».

Queste linee guida, insomma, vogliono fornire agli odontoiatri strumenti agili di lavoro e consentire un approccio omogeneo, basato sull’evidenza scientifica, per la gestione delle parodontiti di stadio da 1 a 3. «L’approccio graduale prestabilito alla terapia – hanno concluso i relatori, che hanno fornito ai presenti il materiale didattico e poster e infografiche per i loro studi – deve avvenire per step successivi, ciascuno con interventi diversi, e conseguente valutazione dei risultati per passare alla fase successiva».
Un percorso formativo che, con CAO e SIdP, sta girando il Paese, che riguarda, per ora, i 64mila odontoiatri italiani, ma che presto si rivolgerà anche alla popolazione con una capillare campagna di comunicazione. Perché per salvare il sorriso servono davvero gengive sane e, nonostante l’alta diffusione della patologia, questa non è una missione impossibile.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia