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La comunicazione è un filo conduttore della professione: quella che serve per instaurare un rapporto di fiducia tra il medico e il paziente, per umanizzare le cure e per garantire la dignità e i diritti previsti dalla Costituzione – come ha sottolineato il presidente della FNOMCeO Filippo Anelli – e, allargando un po’ di più lo sguardo, quella corretta, che non promette cure rapide e miracolose e che si basa sulle evidenze scientifiche. Una comunicazione che è poi legata a stretto filo con la responsabilità, attraverso ad esempio il consenso informato.
Sono questi i temi affrontati sabato scorso, 27 gennaio 2024, all’Ateneo Veneto, in centro storico a Venezia, nel convegno organizzato per l’OMCeO lagunare dal presidente e vicepresidente FNOMCeO Giovanni Leoni, nuova tappa nel percorso nazionale di riforma del Codice di Deontologia medica. Un’iniziativa di formazione – di grande successo, vista la platea piena – rivolta non solo ai medici e agli odontoiatri, ma anche ai giornalisti dell’Ordine del Veneto.

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I saluti delle autorità
A fare gli onori di casa, con il presidente Leoni, Antonella Magaraggia, guida dell’Ateneo Veneto con una lunga carriera professionale in magistratura, che ha sottolineato come i codici deontologici possano sembrare desueti, «cose di altri tempi, poco conosciuti, ma in realtà importantissimi, perché non tutto può essere normato dalla legge».
Di una comunicazione che fa sempre più parte della vita quotidiana, da cui si è ormai inondati e che è sempre più invasiva, troppo rapida, talvolta incisiva, talvolta fuorviante e che ha estremo bisogno di etica e deontologia ha parlato, invece, il presidente Leoni nel suo breve discorso di benvenuto.

«I codici deontologici – ha spiegato subito il presidente FNOMCeO e presidente dell’OMCeO Bari Filippo Anelli – sono strumenti essenziali per la vita delle professioni, perché vincolano ad alcuni principi. Per noi quelli già enunciati da Ippocrate». Si è quindi soffermato su vari temi:

  • la professione «sperduta e impaurita» in un momento di grande trasformazione e cambiamento;
  • la distorsione che avvicina sempre di più il professionista sanitario al concetto di impresa: «ma noi facciamo tutto per curare le persone, non per produrre o guadagnare»;
  • il necessario confronto con la società civile, che ha portato alla nascita del Board Interdisciplinare di Deontologia. per aiutare i medici a riflettere sul ruolo che possono giocare nella comunità;
  • la responsabilità medica, la colpa grave e lo scudo penale, tornato di nuovo all’esame del Parlamento;
  • la rapida evoluzione tecnologica che ora porta l’intelligenza artificiale a fare le diagnosi: «Ma davvero il medico può essere sostituito dall’algoritmo? Davvero si può affidare la propria salute a un computer?» si è chiesto Anelli.

«Noi – ha concluso la guida della Federazione nazionale – vogliamo essere considerati oggi come strumenti della Costituzione per garantire quei diritti su cui si fonda la nostra Repubblica. Il nostro ruolo non è solo fornire prestazioni sanitarie… Pensiamo anche che la comunicazione sia il fulcro della nostra professione nel rapporto medico-paziente: le macchine aiuteranno sempre di più, ma è la persona, insieme all’assistito, a dover decidere come affrontare la malattia».

Attenzione ai temi proposti dal convegno anche da parte delle locali istituzioni amministrative e sanitarie. A partire dalla Regione Veneto con la presenza di Francesca Scatto, presidente della sesta Commissione del Consiglio, che ha spiegato come «se nell’ambito medico si arriva a parlare di medicina difensiva, allora qualcosa non funziona. I cittadini-pazienti non devono essere spinti ad un atteggiamento di lotta con i medici. Spesso noi pazienti siamo “poco pazienti”. Ma non dobbiamo dimenticare che anche i medici sono persone e che, senza il loro aiuto, non possiamo tutelare il bene più prezioso che abbiamo: la salute».
Simone Venturini, assessore alla Programmazione sanitaria Comune di Venezia, ha sottolineato invece come oggi fare il medico significhi anche parlare, parlare alla comunità, avere un’attenzione particolare nei contesti pubblici, sui media, sui social… Sottolineando poi una strana antinomia – da una parte si piccona la sacralità del medico, con il paziente che si pone come suo pari e talvolta cede anche alla violenza, dall’altra parte la tentazione di alcuni medici a diventare star o influencer – ha lanciato un appello: «Dobbiamo fermarci un attimo e risistemare i pezzi. Il ruolo degli Ordini va assolutamente rafforzato: quando i corpi intermedi scricchiolano, non fanno più da filtro o da camera di compensazione, qualcosa non funziona. Dobbiamo lasciare fuori le emozioni e tornare a far parlare le competenze tecniche».

Di tempi difficili, di carenza di risorse e personale, di paziente diventato ormai impaziente, quindi difficile da gestire, del confronto con il futuro che avanza ha parlato poi Luigi Antoniol, direttore amministrativo dell’Ulss 3 Serenissima auspicando che «questo Codice possa essere un ausilio per affrontare un contesto difficile».
Su responsabilità medica e comunicazione, che viaggiano insieme da sempre, si è infine concentrato Mauro Filippi, direttore generale dell’Ulss 4 Veneto Orientale. «La disinformazione, invece – ha aggiunto – è purtroppo un fenomeno più recente. Mentre con i giornalisti c’è un rapporto corretto e trasparente, con i social e con il dottor Google è tutto più difficile. Ma è proprio questa l’area che va governata. E i giovani medici già dall’università devono prepararsi a gestire la comunicazione, non solo quella clinica con il paziente, ma anche con il mondo esterno, riconoscendo la disinformazione».

Responsabilità medica e comunicazione
Con la prima delle due sessioni del convegno – moderata da Silvano Zancaner, direttore della Medicina Legale, e da Roberto Merenda, presidente della Società Triveneta di Chirurgia e direttore della Chirurgia generale di Venezia, entrambi dell’Ulss 3 Serenissima – si è entrati nel vivo degli argomenti da approfondire, partendo dalla dimensione rivelata dallo sguardo della magistratura, soffermandosi in particolare sulla responsabilità medica e sulla colpa grave, per passare poi a quella della comunicazione e della disinformazione.
«Per noi medici – ha sottolineato il dottor Zancaner – questi sono temi complessi e di partecipazione emotiva, non fosse altro per il fatto che parleranno coloro che perseguono la nostra categoria, che indagano sulle colpe mediche e che ci giudicano». Un ambito in cui non si è messi bene, visto il costante aumento di colleghi coinvolti in procedimenti penali.

Il contesto di riferimento è stato fornito da Patrizia Piccialli, presidente della quarta Corte di Cassazione Roma, che ha impostato la sua lectio magistralis declinando i passaggi normativi con cui la giurisprudenza può indirizzare il legislatore verso una soluzione equa per la responsabilità medica, «un tema delicato – ha detto – che va affrontato sempre con attenzione ed equilibrio, valorizzando le responsabilità gravi quando ci sono, ma anche evitando il terrorismo giudiziario. Perché la morte o la lesione di un paziente non vuol dire necessariamente responsabilità di medici o infermieri».
Facendo ricorso a tanti esempi e a tante sentenze emesse dalla suprema corte, ultimo e definitivo grado di giudizio in Italia, il magistrato ha, dunque, passato in rassegna la giurisprudenza fino agli anni Ottanta, sempre a favore del medico e che rifletteva la concezione paternalistica della professione di quei tempi e le leggi più recenti – la Balduzzi del 2012, importante per aver reintrodotto il concetto di colpa lieve, la Gelli-Bianco del 2017 con le linee guida e le buone pratiche a fare da faro per l’atto medico, la normativa anti Covid del 2021 e l’attuale proposta di emendamento da inserire nel Milleproroghe sullo scudo penale da prolungare fino alla fine del 2024 – che hanno sentito il bisogno «di andare incontro alle esigenze dei medici – ha precisato la dottoressa Piccialli – contemperando allo stesso tempo il diritto alla salute del cittadino».
La relatrice ha poi sottolineato come:

  • per la non punibilità del medico la giurisprudenza tenga già conto – e dovrebbe dirlo anche il legislatore – delle situazioni di speciale difficoltà o di emergenza;
  • la responsabilità del medico debba svincolarsi dalla centralità delle linee guida per mantenere la propria autonomia e la propria libertà;
  • la colpa debba essere effettivamente considerata grave e il medico ne debba rispondere, se c’è prevedibilità ed evitabilità dell’evento.

Un passaggio anche sul consenso informato e sui principi contenuti nella legge 219 del 2017 – «una delle più belle che siano state scritte negli ultimi anni» – a cui i medici non possono sottrarsi. Se, però, il paziente può rifiutare le cure, qual è l’informazione che il medico è tenuto a dare? «Secondo me – ha concluso – il medico deve informare il paziente che rifiuta le cure anche delle possibili conseguenze negative derivanti da questa sua scelta».

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Due le precisazioni arrivate dai moderatori – come il medico viva con difficoltà e preoccupazione i lunghi tempi della giustizia (Zancaner) e come faccia fatica a capire la lingua dei giudici (Merenda) – che poi hanno passato la parola a un altro magistrato, Paolo Piras, della Procura della Repubblica di Sassari. Immediata una rassicurazione: «A me interessa – ha detto – la serenità del medico perché va a braccetto con la salute del cittadino: non si può avere l’una senza l’altra. Noi magistrati non possiamo impedire ai medici di fare i medici. La colpa è grave quando la condotta inappropriata è all’evidenza riconoscibile, quando qualunque altro medico in quel caso avrebbe fatto diversamente».
C’è, però, anche il medico che dà al paziente un’informazione intenzionalmente non corretta, tacendogli dati significativi o comunicandogliene di falsi, per scopi di lucro e senza una finalità terapeutica. «In questo caso – ha spiegato citando esempi reali, anche recenti, come la famigerata clinica degli orrori di Santa Rita – il medico viene trattato come l’autore di un delitto di sangue, come avesse in mano un pugnale e non un bisturi».
La scorretta informazione, poi, può essere data anche prima che si instauri la relazione terapeutica, ad esempio attraverso la pubblicità, per agganciare potenziali pazienti, «come un commerciante a caccia di clienti».
A regolare la corretta informazione in medicina, dunque, è l’articolo 56 dell’attuale Codice Deontologico, uno specchio normativo, un quadro sinottico di quello che prevedono le leggi e che definisce le condotte illegali. La pubblicità, allora, deve:

  • essere informativa e non commerciale e persuasiva;
  • avere lo scopo di una scelta libera e consapevole da parte del paziente;
  • essere veridica e funzionale all’oggetto dell’informazione, mai univoca, ingannevole o denigratoria.

«In materia – ha sottolineato il dottor Piras – è l’odontoiatria che ruba un po’ la scena. Sconti, offerte, visite gratuite sono ritenute pratiche promozionali e quindi scorrette e punite. Nel dubbio la pubblicità è meglio non farla o, almeno, chiedere consiglio al proprio Ordine. Il Codice Deontologico può essere usato come un contenitore di utensili per scolpire l’integrità del medico, a cui segue l’autostima di chi non ha nulla da nascondere né da temere perché dà il meglio di sé per il paziente, comunque vadano le cose».

Si è entrati più nel dettaglio sull’evoluzione della comunicazione in ambito medico con la relazione di Pierantonio Muzzetto, presidente della Consulta Deontologica della FNOMCeO e dell’OMCeO Parma, che l’ha subito associata alla fiducia e alla partecipazione attiva in termini di salute, definendola come il presupposto e lo strumento del consenso all’atto medico. «Comunicare salute – ha aggiunto – significa informare in modo chiaro e coerente: preliminare è l’ascolto che è fondamentale. Il rapporto tra medico e paziente diventa relazione attraverso la comunicazione».
Ricordando che “il tempo per la comunicazione è tempo di cura”, come definito dalla Legge 219 del 2017 (art. 1, comma 8), il relatore ha precisato come la comunicazione sia un dovere del medico «ma anche una delle norme – ha sottolineato con amarezza – più trascurate e non rispettate della legge italiana. Se, infatti, contingentiamo le prestazioni, a saltare è proprio la comunicazione».
Il presidente Muzzetto si è poi soffermato su alcuni temi:

  • l’intelligenza artificiale, per il cui governo anche i medici devono giocare un ruolo, la comunicazione digitale e l’analfabetismo digitale di alcuni pazienti;
  • la telemedicina, comunicazione a distanza, «che fa risparmiare tempo, ma deve essere una risorsa per fare meglio e non un alibi per fare meno: deve essere complementare all’atto medico non sostitutiva»;
  • il dialogo che determina la fiducia tra medico e paziente e instaura e potenzia la relazione;
  • il paziente che ormai si informa navigando sul web, ma non sempre fa scelte oculate.

«L’agire medico – ha concluso – si dovrà confrontare con un’evoluzione tecnologica sempre più importante: si passerà dal medico taumaturgo del passato al medico evoluto che sa gestire la tecnologia in modo appropriato. Talvolta è necessario cambiare passando gradualmente alle cose inconsuete: siamo pronti a governare il futuro, ma per farlo dobbiamo conoscerlo».

Della libertà di disinformare, esplosa attraverso i social e il web in tempo di pandemia, si è occupato, infine, Giuliano Gargano, presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Veneto che ha esordito con un aneddoto che ha strappato una risata alla platea: «Ho fatto una prova con l’intelligenza artificiale mettendo tutta una serie di sintomi che sentivo in quel momento. L’algoritmo mi ha risposto che ero “incinto”».
Il primo dato da non sottovalutare però è che 15 milioni di italiani – secondo una ricerca del Censis del 2017, dunque pre Covid – cercano informazioni sanitarie sul web, invece che dal medico. «Ma, di queste – ha aggiunto Gargano – 8,8 milioni, quindi la metà, era stata vittima di fake news. Sui media digitali, purtroppo, le notizie vengono pubblicate e condivise senza un controllo sulla solidità scientifica. Le testate giornalistiche devono seguire una deontologia, i social no, tutti ci possiamo scrivere».
La velocità che non è amica della buona informazione, il rumore informativo, cioè le troppe informazioni incontrollate che l’OMS ha definito infodemia, le teorie complottiste che hanno avuto vita facile in pandemia quando le persone cercavano parole rassicuranti e i giornalisti trasmettevano, invece, solo incertezze, i principi cardine del Manifesto di Piacenza, la carta deontologica del giornalismo scientifico tra gli altri temi affrontati dall’esperto.
«C’è poi la pubblicità – ha concluso Gargano citando il caso di un noto imbonitore che vendeva in tv la sua dieta miracolosa – che il giornalista non può fare. È difficile contrastare questi fenomeni, ma il Codice Deontologico può essere un riferimento contro gli eccessi e le deviazioni del sistema. Bisogna, però, trovare una soluzione per chi si pone fuori dagli Ordini professionali e sfrutta i moderni canali di comunicazione. In questo senso la collaborazione tra gli Ordini per garantire una corretta informazione scientifica è il passo da cui partire».

Pubblicità sanitaria e nuovo Codice Deontologico
Proprio dalla pubblicità sanitaria, spesso ingannevole e fuorviante in alcuni ambiti, come l’odontoiatria, l’estetica e le diete, e delle sue derive si è partiti nella seconda sessione del convegno per approdare poi agli indirizzi che sul tema si stanno delineando nella riforma del Codice di Deontologia Medica. A moderarla Giuliano Nicolin, presidente della CAO lagunare, che ha sottolineato i limiti e le difficoltà di agire anche degli Ordini sul fronte dell’informazione di stampo commerciale, ed Enrico Pedoja, presidente della Società Medico Legale del Triveneto, che ha proposto ai magistrati una specie di filtro per mettere un argine alle cause contro i medici: l’obbligo del denunciante di portare a suffragio dell’ipotesi di reato anche un accertamento tecnico.

Le promesse e le realtà per un nuovo sorriso chiavi in mano è stato il tema approfondito da Christian Bacci, direttore dell’unità Clinica Odontoiatrica Azienda Ospedale dell’Università di Padova, che si è chiesto come prima cosa se l’informazione corretta da dare al pazienti si basi su fatti o su opinioni perché anche nelle pubblicazioni spesso, si trova tutto e il contrario di tutto.
«La promessa al paziente dunque – ha spiegato – è: tutto, subito, indolore e quindi anche a meno soldi». L’implantologia, però, ad esempio, non è così semplice: un impianto è una radice in titanio avvitato nell’osso che deve rimanere nel tempo per integrarsi, «servono – ha aggiunto – dalle 6 settimane ai due anni, per poterci masticare sopra dai 4 ai 6 mesi». Attraverso la metanalisi dei lavori scientifici pubblicati, allora, cioè la verifica sistematica della letteratura, l’odontoiatra sa che l’impianto singolo a carico immediato funziona abbastanza, ma multiplo funziona di più. «Questa informazione – si è chiesto il dottor Bacci – viene trasmessa al paziente? O gli si dice che i denti e gli impianti non sono per sempre
Sui social fioccano gli spot di impianti diversi da quelli tradizionali, quello zigomatico ad esempio, che sono di tipo extra orale. «Quello che dice la pubblicità – ha sottolineato il relatore – è tutto vero, l’impianto zigomatico funziona e consente il carico immediato. Ci sono poche complicanze, ma essendo una chirurgia extra orale quando ci sono, sono anch’esse extra orali. I danni sono rari, ma grossi. Quindi bisogna vedere cosa dici oltre che a come lo dici».

«Solo il chirurgo plastico ha competenze nella correzione dei difetti per il miglioramento estetico: il chirurgo estetico, spesso pubblicizzato, in realtà non esiste» ha messo subito in chiaro Eugenio Fraccalanza, direttore della Chirurgia Plastica dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, Ulss 3 Serenissima, che ha poi illustrato come esempio ciò che succede nella chirurgia mammaria, in cui è necessaria la collaborazione tra gli specialisti per fare le scelte migliori per la paziente e in cui non mancano i limiti delle protesi, che non vanno bene sempre e dappertutto.
«Le tecniche della chirurgia plastica – ha spiegato passandole in rassegna con il supporto di casi clinici reali – bisogna saperle maneggiare accuratamente e comportano tempi molto lunghi: ore di intervento, la terapia intensiva…». Sempre più spesso, però, il chirurgo plastico si trova a rispondere a richieste smodate ed esagerate di prestazioni di tipo estetico «a volte con pretese che hanno del miracolistico» o a dover intervenire su pazienti già operati all’estero, con criteri di non adeguata sicurezza, e che tornano con tutta una serie di problemi.
«Per limitare i rischi – ha concluso il dottor Fraccalanza – e migliorare i risultati servono alcuni parametri: un corretto specialista che dia la corretta informazione e che esegua la corretta procedura con gli strumenti corretti».

E dopo il sorriso e la chirurgia estetica, Francesco Francini, docente alla Scuola di Specializzazione in Scienza dell’Alimentazione dell’Università di Padova, si è occupato di diete miracolose, altro settore in cui la comunicazione è spesso fuorviante, «e che spesso – ha detto – consideriamo qualcosa di pittoresco e di comico, mentre la situazione è un po’ più grave di quello che appare». Soprattutto perché, in questo campo, si ha a che fare con la pseudoscienza, che fa appello alla fede, tende a convertire la persona e non a convincerla con l’evidenza scientifica, che parte da alcuni aspetti veri, che fanno comodo alla propria idea, senza però raccontare tutta la storia.
Se per la legge in Italia solo medici, dietisti e biologici possono proporre le diete, in realtà a farle sono un po’ tutti: farmacisti, preparatori atletici, psicologi, osteopati, naturopati… «I biologi nutrizionisti poi – ha spiegato – sono autorizzati a fare diete anche se non hanno studiato le patologie, le terapie e la farmacologia. Si presentano come dottori e il paziente è ingannato, pensa di avere davanti un medico».
Dopo aver accennato alla disinformazione scientifica, al ruolo degli influencer, alle battaglie sui social dei leoni da tastiera e a ciò che succede in molte palestre italiane, il dottor Francini ha passato in rassegna le diete al momento più alla moda:

  • la dieta paleolitica, che spinge a tornare a mangiare come gli uomini delle caverne, tanta carne, soprattutto frattaglie, «non dicendo però che l’aspettativa di vita dell’uomo primitivo era di 25-30 anni e non di 85 come oggi»;
  • la dieta vegana, i cui dati a favore vengono sempre confrontati con la dieta onnivora americana, non di certo la più sana, e che comporta molti rischi di carenze;
  • la dieta chetogenica, «una vera e propria terapia in realtà, potente a certe condizioni, usata per l’epilessia, le malattie rare e l’emicrania»;
  • le diete da farmacia, spesso offerte per qualche intolleranza, la dieta del DNA, costruite in base alle proprie varianti genetiche, la dieta del microbioma;
  • il digiuno intermittente, su cui non c’è alcuna evidenza scientifica che sia più efficace di una dieta normale e che porta ovviamente al calo di peso dato che si salta qualche pasto.

Ultimi arrivati in ordine di tempo l’acqua alle proteine o arricchita con lo zinco. «In una bottiglietta d’acqua – ha concluso il relatore – ci sono 15 grammi di proteine. Sono tanti. Anche lo zinco non è una banalità: la popolazione non ne ha carenza, ma se ne assumo troppo non assorbo più rame e questo è un problema. Purtroppo però la popolazione normale non lo sa».

E la voce di questo normale paziente che poco o nulla sa e che non può essere al passo con tutte le specialità e le varie discipline mediche, è stata portata da Lorenzo Mattia Signori, segretario di CittadinanzAttiva per il Veneto, associazione che dalla sua nascita cerca proprio di creare cittadini attivi, informati e consapevoli.
Nel nostro territorio su quasi 5 milioni di abitanti veneti, il 17,5% ha più di una patologia cronica e il 3% ne ha più di 5, il 30% si approccia al medico di famiglia con le informazioni fornite dallo smartphone. «Serve davvero, quindi – ha detto – una campagna di informazione e di educazione, serve un rapporto più stretto tra specialista e paziente. Noi la chiamiamo alleanza. E serve perché tanto più il cittadino diventa cosciente dei propri diritti e doveri, tanto più accetta, accoglie e diventa collaborante».
Al cittadino, insomma, qualche cosa bisogna insegnare: come, ad esempio, a leggere le prescrizioni e a capire la priorità che è stata assegnata per gli accertamenti, o che non è necessario andare a curarsi i denti in Croazia dove la sicurezza lascia a desiderare. «I cittadini – ha sottolineato Signori – sono spaesati e bombardati dai meccanismi dei social, talvolta sperduti anche davanti alle istituzioni sanitarie che non danno risposte. Dopo il Covid siamo diventati intolleranti e maleducati, pieni di pretese: anche per evitare aggressioni al personale sanitario, CittadinanzAttiva vuole allora creare cittadini responsabili».

Nell’ambito della comunicazione tra medico e paziente e, più in generale, dell’informazione sanitaria, ad emergere, insomma, sono soprattutto le ombre. E allora su questi aspetti che indirizzi sta prendendo la riforma del Codice Deontologico? A spiegarlo Elisabetta Pulice, coordinatrice del Board Interdisciplinare di Deontologia, che ha sottolineato subito come la comunicazione nella relazione di cura serva proprio come tutela concreta dei diritti fondamentali del paziente e sia strettamente legata alla sua autodeterminazione.
Uno dei binari su cui si sta muovendo la riforma è la sintonia con molti aspetti promossi nella già citata legge 219 del 2017 e che il Codice stesso aveva anticipato: dall’importanza del consenso informato ai doveri di comunicazione in ogni passaggio della relazione di cura; dall’autonomia del medico da rispettare all’autodeterminazione del paziente che in qualsiasi momento può interrompere, rifiutare o revocare le terapie.
«In molte situazioni – ha spiegato la giurista – la comunicazione è difficile, servono più tempo, più impegno e più energie per i professionisti sanitari. La dimensione organizzativa, allora, deve adeguarsi e i medici hanno diritto di essere messi nelle condizioni di poter effettivamente svolgere il loro lavoro: solo così il tempo di comunicazione diventa davvero tempo di cura».
Un Codice Deontologico rinnovato dunque:

  • deve essere una guida per il professionista;
  • integra il diritto;
  • riequilibra le asimmetrie;
  • interpreta i principi in modo dinamico e costituzionalmente orientato;
  • si fa carico delle nuove esigenze di tutela;
  • deve mantenere la propria autonomia senza appiattirsi sulla legge.

«La comunicazione – ha concluso la dottoressa Pulice – è trasversale e ha tanti effetti: all’interno del Board è stata considerata come uno dei nodi centrali per affrontare i diversi temi legati alla pratica medica. È importante partire proprio dalla comunicazione per definire i ruoli, le autonomie, le responsabilità».

Il consenso informato, insomma, non deve essere vissuto dal medico solo come una mera questione burocratica, da liquidare al più presto, ma deve essere considerato l’obiettivo principale della professione.
«E anche sul risk management – ha concluso Roberto Monaco, segretario FNOMCeO e presidente dell’OMCeO Siena – bisogna avere un approccio meno personale e più di sistema, come ci ha insegnato la vicenda dello scudo penale: indaghiamo non la persona, ma l’organizzazione per trovare la soluzione».
È risuonato forte, scandito e condiviso dall’applauso della platea, l’appello finale del vicepresidente dell’Ordine veneziano Maurizio Scassola: «Invochiamo – ha detto – il diritto al tempo: noi alla politica chiediamo tempo, modelli organizzativi sicuri, protezione. Abbiamo gli stessi interessi delle persone che curiamo. Abbiamo bisogno del tempo e il tempo si ricava attraverso gli investimenti, il personale, l’organizzazione del lavoro, una qualità della vita professionale e personale dignitosa».

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia