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Appropriatezza: prenderne coscienza per esserne il motore e non subirla passivamente. Fare un passo avanti, dunque, sulla strada della consapevolezza a partire «da una percezione: «di sicuro noi medici la pratichiamo ogni giorno senza, però, ben capirne la portata». Lo ha spiegato il presidente dela CAO veneziana Giuliano Nicolin introducendo l’ultimo convegno dell’anno dell’OMCeO lagunare, dal titolo Appropriatezza delle cure e opportunità terapeutica. Percorsi decisionali, obblighi professionali, etica e responsabilità, da lui organizzato per l’Ordine lo scorso 7 dicembre al Centro Pastorale Cardinal Urbani di Zelarino.
«Spesso sentiamo parlare di appropriatezza – ha aggiunto – da persone che forse non sono le più competenti, che calano sul medico norme e modalità per un fine che ormai permea tutta la società: contenere le spese. Questo però poco si concilia con la nostra attività. Quando poi veniamo chiamati a rispondere del nostro operato, c’è un fattore poco considerato: noi dobbiamo essere preparati e conoscere le linee guida, ma poi le dobbiamo applicare su un soggetto estremamente variabile, il paziente».
Insomma ci si sente dire: comportati così che andrà tutto bene e spenderemo anche meno. «Ma noi sappiamo – ha spiegato il dottor Nicolin – che non sempre è così, che qualche volta non c’è corrispondenza tra norme e realtà. Noi spesso subiamo queste imposizioni, ce ne lamentiamo, e invece sull’appropriatezza dovremmo essere noi gli attori, noi quelli che dettano le regole».

Ad aprire la mattinata di studi, con la guida degli odontoiatri veneziani, anche il presidente dell’OMCeO veneziano e vice nazionale Giovanni Leoni: insieme hanno ringraziato alcuni dei relatori presenti, già protagonisti di un convegno di inizio marzo sull’intelligenza artificiale che ha portato in laguna – «unico Ordine in Italia a riceverlo finora» – un importante riconoscimento a livello nazionale: il Premio Eccellenze dell’Informazione Scientifica.
Reduce da un recente convegno a Roma sulla povertà sanitaria e appoggiandosi a uno studio realizzato dal Censis per la FNOMCeO, il presidente Leoni nei suoi saluti ha anche accennato ad alcuni temi di stretta attualità:

  • le risorse destinate alla sanità molto inferiori rispetto agli altri paesi europei;
  • la distorsione che vede queste spese solo come un costo «quando ormai invece i dati ci dicono che sono un investimento: un euro di spesa pubblica investito in sanità ne genera quasi 2 di produzione in valore»;
  • le potenzialità occupazionali e il “boom dei non permanenti” con il personale sanitario dipendente, a cominciare dai medici, sempre in numero insufficiente;
  • l’aumento sproporzionato dei contratti a tempo determinato e interinali, gettonisti e cooperative, a scapito delle stabilizzazioni;
  • le retribuzioni medie più basse, ancora una volta, dei colleghi europei.

«Alla fine – ha concluso il presidente Leoni – il paziente è costretto a ricorrere alla spesa di tasca propria. L’Italia con 45 miliardi di euro è il primo paese in Europa per out of pocket».

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Organizzazione, ospedale, territorio: i volti dell’appropriatezza
Tutta dedicata all’appropriatezza delle cure, sotto il profilo normativo, ma anche pratico, la prima sessione del convegno, moderata dal vicepresidente dell’Ordine Maurizio Scassola che ha voluto sottolineare come «l’appropriatezza sia un tema trasversale alla categoria tutta, medici e odontoiatri insieme, senza distinzioni. Appropriatezza che è innanzitutto il risultato di un confronto tra colleghi, di una comunicazione costante tra professionisti».
Le norme e l’organizzazione nella sanità pubblica il primo tema approfondito da Alessandra De Palma, direttore della Medicina Legale e Gestione Integrata del Rischio del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, che ha subito declinato la definizione di appropriatezza «che secondo l’OMS – ha detto – va rapportata al contesto sociale in cui vengono erogate le prestazioni, garantisce equità di accesso e l’allocazione in modo giusto delle risorse».
Seppur complesso rintracciare una definizione chiara di appropriatezza, si possono evocare qualità, sicurezza delle cure, efficacia ed efficienza. Nella letteratura scientifica viene descritta come: “Utilizzo corretto (basato sulle evidenze e/o esperienza clinica e/o buone pratiche) di un intervento sanitario efficace, in pazienti che ne possono effettivamente beneficiare in ragione delle loro condizioni cliniche”.
Un’appropriatezza che ha, di fatto, due dimensioni: quella organizzativa, in primis dell’assistenza ospedaliera, e quella clinica, che riguarda cioè i percorsi diagnostici terapeutici. Sul fronte organizzativo un intervento sanitario si definisce appropriato quando è erogato “consumando” un’appropriata quantità di risorse nel “posto giusto” con il “professionista giusto”, «anche se – ha avvertito la relatrice – noi pubblichiamo per lo più i risultati positivi degli studi clinici, quelli negativi mai. Dunque, in realtà, non abbiamo una letteratura sviluppata rispetto all’evoluzione negativa delle prestazioni che facciamo o dell’utilizzo di farmaci e dispositivi».
Tra gli altri temi affrontati dall’esperta:

  • le liste d’attesa, al centro di tantissimi contenziosi;
  • il sovra e il sotto utilizzo: «l’appropriatezza, sia professionale sia organizzativa, può essere in eccesso (overuse) o in difetto (underuse)»;
  • la complessità del fenomeno, che si collega anche alla medicina difensiva, alla cultura diffusa del “prestazionismo”, il famoso Dottor Google, e all’attuale organizzazione dei medici di famiglia;
  • la visione «ospedalocentrica» della sanità regionale e nazionale e il contesto ospedaliero attuale, caratterizzato, tra le altre cose, da una domanda crescente di carattere per lo più assistenziale per una popolazione sempre più anziana, pluripatologica, lungodegente, da un’attenzione troppo alta al prodotto (farmaco, prestazione, intervento) e troppo bassa al percorso e alla sua organizzazione e dagli alti costi delle tecnologie innovative e non (farmaci, apparecchiature).

Il tutto mentre, nel frattempo, l’asse di cura si è spostato verso il territorio. «Serve, allora – ha concluso la professoressa De Palma – un modello di rete più innovativo. Ma le reti per funzionare devono essere collaborative e non competitive».

Un tema, l’appropriatezza, su cui la Federazione nazionale degli Ordini si sta interrogando da tempo. Riflessioni riportate al convegno da Luca Dal Carlo, segretario della Commissione Albo Odontoiatri lagunare, che è partito però dal decreto Appropriatezza, anche detto decreto Lorenzin, dal nome dell’allora ministro della Salute, pubblicato in Gazzetta Ufficiale a inizio 2016. Una norma che definisce “le condizioni di erogabilità e le indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale” della sanità pubblica.
Per l’erogabilità sul fronte odontoiatrico, ad esempio, il decreto prende in considerazione la tutela della salute odontoiatrica nell’età evolutiva, 0-14 anni, e l’assistenza per determinate categorie di pazienti in particolari condizioni di vulnerabilità sociale o sanitaria.
«Questo decreto però – ha sottolineato il relatore – è stato in fretta superato un po’ per ragioni economiche, a causa soprattutto della crisi, un po’ perché a poca distanza sono usciti i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), che hanno determinato nuove condizioni e nuove restrizioni, un po’ infine per la reazione della categoria medica».
Nel 2017, infatti, la FNOMCeO ha diffuso un manifesto importante sull’equità della salute, in cui ci si focalizza “sullo sviluppo delle raccomandazioni a supporto delle azioni e delle buone pratiche del medico” per ridurre le disuguaglianze di salute. Raccomandazioni sintetizzate in un decalogo che diventa strumento per la pratica clinica: dalla necessità di gestire gli appuntamenti in modo flessibile a quella di considerare il contesto ambientale e sociale da cui proviene il paziente, dall’assistenza multidisciplinare al monitoraggio e alle azioni di screening, dal potenziamento della comunicazione al coinvolgimento degli studenti di medicina.
Dal dottor Dal Carlo, infine, uno sguardo anche all’appropriatezza in odontoiatria che nella sua dimensione organizzativa è regolata dal Codice Deontologico sul fronte del comportamento, dalle autorizzazioni sanitarie obbligatorie per gli ambienti e dalle stringenti normative europee sui dispositivi e la strumentazione. Sul fronte clinico, invece, dalle Raccomandazioni in Odontostomatologia diffuse nel 2014 e nel 2017 dal Ministero della Salute, che “definiscono standard di intervento per la prevenzione e la cura delle più comuni patologie del cavo orale nonché per l’identificazione di percorsi terapeutici appropriati a supporto degli operatori pubblici e privati”.
«Queste raccomandazioni – ha concluso l’odontoiatra – sono state messe a punto e poi controllate da una quantità enorme di enti e associazioni, 140 diversi autori. Questo il messaggio fondamentale: da soli non si va da nessuna parte. È necessaria sempre la collegialità» anche e soprattutto per definire l’appropriatezza.

«L’appropriatezza degli interventi medici è fondamentale perché deve garantire che le pratiche cliniche siano allineate con le evidenze scientifiche. Questo può migliorare la qualità delle cure, ridurre gli errori e ottimizzare gli esiti per i pazienti». È partito da qui nella sua relazione il dottor Alberto Ricciardi, primario dell’Unità Complessa di Ortopedia e Traumatologia dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, per spiegare come le linee guida giochino un ruolo di primo piano sul fronte dell’appropriatezza.
L’obiettivo è cercare di standardizzare le pratiche grazie a un quadro di riferimento, le linee guida appunto, che riducono la variabilità nelle decisioni cliniche, migliorano la coerenza nella cura dei pazienti e garantiscono trattamenti più sicuri ed efficaci. «Standardizzare però – ha anche sottolineato il relatore – può essere semplice per le patologie d’elezione mentre diventa sempre più difficile, ad esempio, in traumatologia: spesso dobbiamo discostarci dalle indicazioni perché è una chirurgia molto particolare che non può essere racchiusa in linee guida».
Il primario si è quindi soffermato sul processo di creazione delle indicazioni comuni partendo dall’importanza di un gruppo di lavoro di qualità, passando per le evidenze e gli aggiornamenti continui e per un percorso di trasparenza e integrità. «Le linee guida – ha aggiunto – sono uno strumento indispensabile per una pratica clinica aggiornata, sicura ed etica e rappresentano idealmente un ponte tra letteratura scientifica e pratica clinica».
Nel suo ambito clinico, ad esempio, le linee guida sono state approntate dal GLOBE, il Gruppo di Lavoro Ortopedia Basata su prove di Efficacia, della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia (SIOT), che ha prodotto tanti documenti, basati sulle evidenze scientifiche pubblicati anche dall’Istituto Superiore di Sanità: le linee guida sulla protesi all’anca o al ginocchio, ad esempio, o quelle per la frattura del femore nell’anziano.
L’integrazione delle evidenze scientifiche con i bisogni dei pazienti, l’influenza dell’industria biomedica sulle linee guida, l’ottimizzazione delle risorse sanitarie, la partecipazione dei pazienti al processo decisionale e la formazione continua per i professionisti sanitari gli altri temi affrontati dal dottor Ricciardi, «formazione, però – ha concluso a malincuore – che è sempre più difficile perché i fondi sono scarsi».

Dall’ospedale al territorio, è toccato al medico di famiglia Luca Barbacane parlare dell’appropriatezza nell’ambito della Medicina Generale, «un termine – ha detto subito – molto usato negli ultimi tempi, ma spesso in modo inappropriato…» per poi chiedersi: «Appropriato secondo chi? Da quale punto di vista? Solo secondo le linee guida? Secondo il livello di best practice? Secondo il livello di riferimento scelto dall’azienda sanitaria?».
In realtà a declinare l’appropriatezza oggi sembra essere per lo più l’idea di risparmiare preziose (e scarse) risorse pubbliche. Il medico di famiglia, ad esempio, viene valutato più o meno appropriato dall’azienda sanitaria sulla base di alcuni indicatori tra cui la spesa dei farmaci e le prescrizioni. «Io, ad esempio – ha sottolineato il dottor Barbacane – sono etichettato come inappropriato rispetto alla spesa farmaceutica perché supero la spesa pro capite per paziente stabilita. Idem anche sul fronte delle prescrizioni. Io, dunque, sono stato inappropriato… Ma questa appropriatezza deriva da un mero riferimento numerico stabilito da una media, un livello ideale».
L’appropriatezza che spende ogni giorno un medico di famiglia, poi, dipende anche dalle condizioni di lavoro, dall’essere o meno, ad esempio, sotto pressione per gli esiti di questi report aziendali, dall’aver ricevuto una notifica di sforamento importante delle prescrizioni o, non ultimo, a seconda dell’esito del percorso diagnostico e terapeutico affrontato.
Altra declinazione dell’appropriatezza quella legata alle liste d’attesa. «Secondo il ministro della Salute Schillaci – ha spiegato il relatore – abbiamo troppe prescrizioni quindi queste sono inappropriate. Equazione non proprio solidissima in realtà. Quello che prescrivo diventa appropriato o no rispetto al rischio di allungare o meno la lista d’attesa».
Vita dura, insomma, per il medico di famiglia che vuole districarsi sul fronte dell’appropriatezza, «che deve essere – la conclusione del dottor Barbacane – il risultato di una sintesi che il medico è chiamato a fare in quel momento specifico con quel paziente. Ogni situazione in ambulatorio è irripetibile. A volte, lo sappiamo dalla pratica, è opportuno prescrivere un accertamento o un iter diagnostico per tranquillizzare l’assistito: a volte non c’è modo più appropriato per curare in quel momento quella persona».

Dall’appropriatezza all’opportunità terapeutica: i risvolti medico legali
Tutta improntata agli aspetti medico legali dell’opportunità terapeutica la seconda sessione del convegno, moderata dal segretario dell’Ordine Paolo Sarasin. A declinarla in questo contesto è stata Sarah Nalin, segretario della Società Medico Legale del Triveneto, che prima ha definito il decreto Lorenzin un fallimento «perché considerava l’appropriatezza solo sotto il profilo economico: sei bravo ed appropriato solo se spendi di meno», poi ha sottolineato i punti di forza del manifesto FNOMCeO «che ha introdotto quello sguardo etico che era mancato al legislatore, le modalità con cui l’appropriatezza deve essere attuata e i concetti, fondamentali, di confronto, trasversalità e formazione».
Il medico legale non valuta l’appropriatezza rispetto ai costi, la valuta come indicazione calata nel contesto, «vede il paziente – ha spiegato la relatrice – nella sua interezza: come si presenta, quali problemi ha, come viene trattato e quali sono poi gli esiti. Ha una visione complessiva: non si può più pensare che ci sia a una domanda una risposta, il rapporto non è più uno a uno (a quella patologia corrisponde quel quadro terapeutico) perché le malattie e la scienza sono evolute. Ogni caso va contestualizzato». Una dimensione, questa, che è ora supportata anche dai lavori della Commissione Nordio lì dove sollecita “altre scelte diagnostiche e terapeutiche adeguate alle specificità del caso concreto”.
«Talvolta – ha concluso la dottoressa Nalin citando una recente sentenza – non si deve pensare alla guarigione, seppur con la possibilità di intervenire chirurgicamente, ma a un intervento conservativo per evitare il rischio. L’indicazione va contestualizzata per quel paziente con quelle caratteristiche ed è questo il concetto corretto di appropriatezza».

L’appropriatezza come chiave della responsabilità civile professionale il tema approfondito dal risk manager Flaviano Antenucci, che, per spiegare come si passa da un atto medico, l’appropriatezza, appunto, a uno giuridico, l’opportunità terapeutica, è partito nella sua riflessione da un dato di fatto: più dell’80% della spesa per la sanità in Italia è fatto di cure che non salvano vite, ma che servono a migliorare la salute. «La salute – ha detto – non è più solo salvare la pelle, ma è uno stato, una condizione da perseguire».
Tra queste due dimensioni, però, le regole della responsabilità sono molto diverse: quando si salvano le vite non ci sono problemi – «è più facile difendersi, non c’è responsabilità contrattuale o extracontrattuale che tenga» – quello che si teme invece sono le regole della medicina che tutela la salute, perché a generare responsabilità sono tanti fattori: la documentazione clinica, il rapporto evidenza-decisione, la competenza specifica, l’anamnesi, la compliance del paziente.
Il relatore ha dunque mostrato tre esempi in cui la medicina non strappa il paziente alla morte, «i tre campi in cui avviene la maggioranza dei danni»: l’endoprotesica, l’oncologia chirurgica e le azioni di prevenzione attraverso gli screening. «Oggi – ha sottolineato il dottor Antenucci – la responsabilità è basata sulle aspettative di chi riceve la prestazione che si costruisce l’idea di ciò che può ottenere. Queste aspettative sono legittime tutte le volte che sono legittimate».
Se, dunque, sul fronte dell’endoprotesica e dell’oncologia chirurgica uno dei passaggi fondamentali dell’opportunità terapeutica è lavorare sulle aspettative, cioè sulla comunicazione con il paziente, nella prevenzione legata agli screening, il punto è proprio non creare aspettative. «Con la prevenzione – ha spiegato il risk manager – noi curiamo i sani. L’affidamento del paziente è inevitabile: lui parte dal presupposto che se si fa fare quest’analisi, dopo sarà al riparo dal cancro. Non è così, non si devono creare aspettative». In sostanza: il medico che dice al paziente che non salterà la cavallina, ma per un po’ di tempo potrebbe stare meglio a certe condizioni, è diverso dal medico che non dice nulla e gli lascia credere che quella cavallina la salterà.
Dal dottor Antenucci alla fine una metafora per comprendere meglio il passaggio dall’appropriatezza all’opportunità terapeutica: sul fronte responsabilità è come stare su un tavolo in cui si gioca a carte, ma non sono i medici a determinare le regole. Si gioca a scopa all’asso: l’appropriatezza è il re di denari, la scopa si fa con la congruenza, il 7 di denari, e con il giudizio professionale, il 3 di denari. «La vostra opinione – la sua conclusione – deve essere sempre patente, non latente. Perché siete difendibili anche quando non fate la cosa giusta purché la facciate perché vi sembrava la cosa giusta in quel momento. Quando le due cose, congruenza e giudizio professionale, sono insieme, l’appropriatezza diventa il terreno in cui si gioca l’asso del paziente, che porta il suo bagaglio di aspettative e affidamento».

Ultimo approfondimento della mattinata di studi riservato a chi sta “dall’altra parte della barricata”, «il cattivo di turno, quello che pur non avendo alcuna competenza, alcuna conoscenza, ha l’ardire di giudicare» come si è autodefinito il magistrato Roberto Simone, consigliere della Corte di Cassazione, chiamato a spiegare come in tribunale si valutano le prestazioni tra etica, appropriatezza e opportunità.
Dal giudice subito un distinguo. «La responsabilità sanitaria – ha spiegato – da 50 anni ormai è una responsabilità d’impresa, di tipo aziendale. Certo, poi esiste un ampio settore in cui l’attività medica è individuale, con rapporto diretto tra medico e paziente, ma tutto sommato non genera un numero di contenziosi significativo. Gli incidenti in campo sanitario attengono sempre all’attività organizzata e erogata dalla sanità pubblica o convenzionata».
La differenza tra responsabilità contrattuale ed extra contrattuale, il ruolo dei consulenti tecnici d’ufficio, la legge Balduzzi, primo intervento per cercare di contenere l’ondata montante di azioni giudiziarie, il tentativo di tracciare dei confini della legge Gelli-Bianco per canalizzare i giudizi e le responsabilità verso le strutture sanitarie, tra i temi sollevati dal dottor Simone. «Quello della responsabilità sanitaria – ha aggiunto il magistrato – dovrebbe essere un problema delle strutture, dei soggetti economici che erogano il servizio. Non dovrebbe vedere direttamente coinvolti in giudizio, a meno di condotte clamorosamente negligenti o dolose, i sanitari dipendenti strutturati. Questa sarebbe l’unica soluzione per non mettere il sanitario in condizione di agire in chiave puramente difensiva».
Ultime riflessioni dedicate all’autonomia che negli ultimi anni si è cercato di riservare alla responsabilità civile rispetto a quella penale e che ora torna a essere messa in discussione dalla riforma che si sta studiando della legge Gelli-Bianco. «La responsabilità civile – l’analisi conclusiva del relatore – si è faticosamente disancorata da quella penale. Al di là del risarcimento economico, l’obiettivo primario della responsabilità civile è ridurre le occasioni di danno e quindi contenere i costi sociali degli incidenti. La revisione dell’articolo 7, però, dice che se l’operato è conforme alle tre direttrici, linee guida, buone pratiche e altre scelte diagnostiche terapeutiche adeguate alla specificità del caso concreto, non c’è responsabilità a meno che il paziente non provi che quel caso concreto imponeva una diversa condotta della struttura sanitaria o dell’operatore». Una norma che rende il sistema ancora più complicato e che, secondo Roberto Simone, «crea un duplice rischio: da un lato interrompere il processo di autonomia della responsabilità civile rispetto a quella penale, dall’altro la responsabilità civile prenderà una curvatura di tipo solo sanzionatorio. Quel fantasma che in questi decenni si è cercato di esorcizzare».

Chiaro, dunque, il percorso che si è sviluppato durante il convegno. «Le relazioni – le conclusioni dell’organizzatore Giuliano Nicolin – si sono concatenate molto bene, senza contraddizioni. Ed è emerso come, al di là delle varie sfaccettature, l’idea di appropriatezza sia proporzionata e uguale per tutti». Dall’appropriatezza all’opportunità terapeutica, dunque, da un atto medico a uno giuridico c’è un percorso di consapevolezza da fare.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia