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Sempre più sotto i riflettori della cronaca nera, la violenza di genere è un fenomeno complesso da contrastare. Perché, al di là dei femminicidi, ultimo estremo drammatico atto, sono tante le declinazioni da considerare: le aggressioni per così dire “minori”, ma magari quotidiane, i figli che assistono alla violenza in casa tra i genitori e ne portano i segni, la dipendenza economica, che non permette alle vittime di sganciarsi dai loro aguzzini, la sottomissione psicologica. E allora, per affrontare queste forme sempre più insidiose, alle istituzioni non resta altro da fare che mettersi in rete, attivando un approccio multidisciplinare e collettivo che integri le competenze della scienza e del diritto nella sua prevenzione e gestione.
Ma serve anche un passo in più: la tracciabilità di questa rete «che ci viene chiesta – ha sottolineato Cristina Mazzarolo, medico legale e coordinatrice della Commissione Pari Opportunità (CPO) dell’OMCeO veneziano che ha organizzato il convegno – dalla Procura ordinaria, da quella minorile e dalle forze dell’ordine, una tracciabilità che per alcuni servizi c’è e funziona molto bene, ma che deve essere diffusa a livello territoriale con dei punti di riferimento. Per cercare di intervenire nel modo più pratico e utile sia per contenere il fenomeno sia per la sua repressione, attraverso segnalazioni in interazione con le autorità giudiziarie, ma prima ancora in ambito preventivo».
Di ampia portata, dunque, gli obiettivi del convegno Basi neuro-anatomiche e risvolti psichici della violenza di genere che si è svolto al Centro Pastorale Cardinal Urbani di Zelarino lo scorso 5 aprile. Ad accogliere i partecipanti il presidente dell’Ordine lagunare e vicepresidente nazionale Giovanni Leoni che ha sottolineato l’impegno di lunga data della CPO su questo tema, riallacciando la mattinata di studi ordinistica alle due che l’hanno preceduta la settimana prima, organizzate dall’Ulss 3 Serenissima anche grazie al lavoro della dottoressa Mazzarolo.
A rappresentare l’azienda il direttore sanitario Giovanni Carretta che, ispirandosi all’immagine della libellula scelta per l’iniziativa, ha spiegato come «l’etimologia del termine richiami tre concetti fondamentali: quello di equilibrio, quello della conoscenza e quello della libertà. In questo momento in cui la sanità e gli equilibri sociali stanno veramente cambiando, rappresenta bene il concetto del convegno. Approfondire e prendere consapevolezza dei meccanismi della violenza di genere è doveroso: ci permette di uscire da certi pregiudizi o certe logiche che a volte sottendono luoghi comuni».
Via lettera anche i saluti dell’assessore alla Programmazione Sanitaria del Comune di Venezia Simone Venturini che ha sottolineato come «la violenza di genere sia una delle sfide più complesse e urgenti del nostro tempo» e come affrontarla «richieda un impegno collettivo costante e trasversale che coinvolga le istituzioni, i professionisti e la società civile. Solo attraverso una rete forte, capillare e multidisciplinare possiamo costruire risposte efficaci, capaci di prevenire, tutelare e accompagnare le donne nel difficile percorso di uscita dalla violenza. Il confronto promosso oggi è un passaggio importante di questo cammino comune».

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Il via ai lavori con i moderatori Cristina Mazzarolo, che ha presentato le componenti della CPO – presenti in sala la ginecologa Alessandra Cecchetto, Maria Cristina Mantovan, neurologa dell’Ulss 3 Serenissima, la dermatologa Manuela Piai e Antonella Tonetto, direttore della Pediatria di Portogruaro (Ulss 4 Veneto Orientale) – Angelica Rampazzo, direttrice dell’unità complessa IAF dell’Ulss 3 Serenissima e Dario Filippo, direttore dell’unità complessa di Psichiatria della stessa azienda sanitaria che ha spiegato come la sensibilità nei confronti della violenza di genere sia aumentata negli ultimi anni e come il fenomeno abbia una «natura polifattoriale. Questa violenza è una stratificazione di vari tipi di situazioni che hanno a che fare molto spesso con la cultura sociale, con fenomeni contestuali, con aspetti educativi, talvolta anche di tipo psicopatologico, oltre che di uso e abuso di sostanze. Il fenomeno, dunque, è eterogeneo e richiede un inquadramento da molti punti di vista».
Nell’ottica della multidisciplinarietà e dell’integrazione tra diritto e scienza, il convegno si è snodato dall’inquadramento del fenomeno dall’angolatura biologica al ruolo della psichiatria forense tra limiti della scienza e imperfezioni dell’uomo, dal contributo delle psicologhe sugli strumenti più efficaci da adottare nella diagnosi e nella terapia in un percorso sinergico tra ospedale e territorio al lavoro sul campo a fianco dei minori vittime i abusi sessuali e maltrattamenti gravi, fisici o psicologici, dalla visione trasversale sulla violenza di genere che offrono la psicopatologia e la psicologia forense agli aspetti criminologici del fenomeno, tra dubbi e certezze della prova biologica e giuridica al fondamentale ruolo che possono e devono giocare i medici di famiglia e i pediatri di libera scelta per conoscere e riconoscere la violenza di genere in un’ottica di prevenzione.

Tante le idee forti emerse durante la mattinata di studi «per cercare di capire comportamenti – ha sottolineato Fabio Sambataro, professore associato di Psichiatria e direttore della Scuola di Specializzazione all’Università di Padova – che ci sembrano incomprensibili e vedere cosa c’è di oggettivamente misurabile». Se la violenza è qualcosa di connaturato nell’essere umano, la componente biologica e le differenze di genere, sostanziali tra uomini e donne, giocano un ruolo fondamentale così come il fattore ambientale. «Se c’è – ha spiegato il relatore – un severo maltrattamento, la probabilità di avere un disturbo antisociale di personalità cresce esponenzialmente. Quindi il gene sì, ma non basta. C’è la componente ambientale, che sarà poi epigenetica, psicologica, sociale, che contribuisce notevolmente. Se l’ambiente non interagisce, la violenza non si esplicherà e la patologia psichiatrica, pur avendo di sicuro una rilevanza, non è il determinante della violenza nella popolazione».

Capire il funzionamento mentale di una persona in rapporto alla legge, cioè cercare di spiegare il comportamento umano nei contesti giudiziari, è il ruolo della psichiatria forense che, però, si scontra con i limiti della scienza, che non sempre può garantire la certezza probabilistica del 100%, e le imperfezioni dell’uomo. Una disciplina che valuta se l’autore del reato sia o meno capace di intendere e di volere e in alcuni casi valuta anche la vittima.
«Esistono – si è chiesto Claudio Terranova, professore associato di Medicina Legale e Tossicologia del dipartimento di Scienze Cardio-toraco-vascolari e Sanità Pubblica all’Università di Padova – un’oggettività e una misurabilità nell’ambito psichiatrico forense? Secondo me, al giorno d’oggi, no: non esistono marcatori misurabili in laboratorio di un disturbo psicopatologico rilevante sul piano penalistico». E in sede giudiziaria, invece, bisogna avere da un lato una “certezza” della diagnosi clinica o dell’alterazione funzionale del funzionamento mentale della persona, dall’altro una certezza sul piano giuridico.
In psichiatria forense la certezza è difficilmente raggiungibile: spesso, all’interno dello stesso caso, i periti delle parti dicono cose assolutamente opposte o valutano il soggetto in modo differente. «Ci sono soluzioni? – si è chiesto il relatore le sue conclusioni – Secondo me si può cercare almeno di avere una riproducibilità del dato: se usiamo delle linee guida, se mettiamo in fila più fasi dello stesso metodo di accertamento, teoricamente dovremmo arrivare allo stesso risultato, raggiungere la massima oggettività possibile in quello specifico contesto. Che comunque non sarà mai la verità assoluta».

Vittime della violenza di genere, però, non sono solo le donne, ma quasi sempre anche i figli minorenni che assistono alle violenze in casa tra i genitori «in contesti sempre più di alta conflittualità», che talvolta subiscono anche violenza diretta e che di sicuro ne riportano traumi davvero difficili da guarire. E allora lavorare in rete diventa fondamentale: «Bisogna intercettare precocemente i sintomi – hanno spiegato le esperte dell’Ulss 3 Serenissima Romina Bosello, responsabile Area Riabilitativa dell’unità complessa di Psichiatria di Mirano-Dolo, Ambra Cappellari, direttore dell’unità NPI Ospedaliera e Ilaria Festa, direttore dell’IAF (Infanzia, Adolescenza e Famiglia) del distretto 2 Venezia-Terraferma – i segni dei nostri ragazzi perché questo ci permette di lavorare anche sulle famiglie per una presa in carico integrata e rapida».
Tra le mura domestiche bambini e ragazzini subiscono eventi avversi, che generano poi problemi di tipo diverso, a ridosso del trauma o a medio e lungo termine. «Gli esiti psicopatologici che vediamo in età adulta – hanno spiegato le relatrici – sono notevoli e possono avvenire sia per effetto diretto, una violenza fisica subita o una violenza assistita, o indiretto, come l’alterazione dello sviluppo e la compromissione del sistema nervoso, di quello ormonale o di quello immunitario». Condizioni che hanno altre ulteriori pesanti conseguenze sulla salute della persona: una maggiore predisposizione già in età adolescenziale al fumo e all’uso di sostanze o di alcol, comportamenti sessuali promiscui, tendenza all’obesità e alla depressione.
Tra gli interventi che si possono attuare: percorsi psicoeducativi o psicologici, per ridurre la quota e l’intensità dei sintomi legati a un disturbo post-traumatico da stress, e il coinvolgimento della famiglia in un percorso psicoterapeutico che aumenti nei genitori la consapevolezza del disagio e della sofferenza del bambino. Tra gli strumenti diagnostici che si mettono in atto, invece: il colloquio psicologico clinico, la visita psichiatrica infantile, il colloquio psico-sociale, la valutazione della nell’ambito della terapia della neuropsicomotricità e l’ascolto protetto.

A supporto dei minori che assistono alla violenza in casa anche le attività dell’Équipe Specialistica Lanterna, nata nel 2017, composta da un team multiprofessionale, multidisciplinare e polispecialistico e attiva in tutta la provincia di Venezia. Una squadra che si occupa di abusi sessuali e maltrattamenti gravi, fisici o psicologici sui minori, sia sul fronte delle vittime, sia su quello degli autori del reato, che supporta con consulenze gli operatori dei servizi territoriali, procede a valutazioni psicodiagnostiche dei minori esposti a situazioni di abuso e maltrattamento, prende in carico le vittime, si occupa dell’ascolto protetto e organizza iniziative di formazione e sensibilizzazione rivolte sia agli operatori sanitari, sia alla cittadinanza.
«Fare rete, unirsi intorno a un tavolo – hanno spiegato le psicologhe e psicoterapeute Paola Penta, Silvia Autellitano, Irene Baldan e Antonella Russo – con i medici di famiglia e i pediatri è fondamentale perché si discute del caso, non del singolo minore, ma del sistema famiglia, della complessità del nucleo. È importane arrivare preparati. Farci una telefonata, sentirci per ragionare serve perché fa la differenza prendere in carico quanto più precocemente possibile le famiglie. Arrivare tardi in situazioni complesse, croniche, psicopatologiche significherà vere esiti infausti. Questo è il senso del lavoro in rete».

A dare una visione trasversale della violenza di genere – non solo un crimine, ma un problema di salute pubblica – possono essere anche altre discipline: la psicopatologia, la psicologia forense e quella giuridica che si occupano degli aspetti diagnostici. «La psicologia forense – ha sottolineato la psicologa e psicoterapeuta Monica Cielo – si occupa di valutare e di intervenire su individui con problematiche psicologiche nel contesto legale». La psicologia forense ha l’obiettivo di valutare il comportamento criminale e di supportare la decisione legale – di valutare cioè le responsabilità penali, la pericolosità sociale e i comportamenti devianti – e lo fa identificando le motivazioni, le capacità e le le condizioni psicopatologiche degli individui.
La psicopatologia, invece, va a verificare come e perché determinati comportamenti, inclusi quelli violenti o devianti, possano essere legati a disorganizzazioni mentali. La diagnosi di un disturbo psicopatologico, infatti, è fondamentale per determinare se un individuo sia capace di intendere e di volere al momento del crimine e per decidere le modalità di trattamento.
«Rispetto alla violenza di genere – ha aggiunto la relatrice – un’analisi trasversale rispetto alla psicopatologia e alla psicologia forense implica considerare in modo simultaneo e interconnesso le implicazioni psicologiche e legali della violenza: influenze reciproche e intrecci nella comprensione e gestione del fenomeno. L’approccio alla violenza di genere deve essere innanzitutto multidisciplinare, ma anche interattivo. Al momento, però, manca un pezzo: l’interoperatività». La chiave, insomma, è favorire un passaggio delle informazioni più diretto per far sì che tutti i professionisti coinvolti parlino la stessa lingua e introdurre la figura del case management che, sul fronte delle vittime, aiuta nella protezione e le accompagna in tutte le fasi, soprattutto nell’uscita dal circuito della violenza, sul fronte degli aggressori, invece, mira alla prevenzione, alla modifica delle condotte e alla riduzione del rischio.

Due, allora, le sinergie che vanno concretizzate: la prima è quella tra professionisti di natura diversa, medici e avvocati, ad esempio. «Noi – ha sottolineato il legale Mariangela Semenzato, presidente della Commissione Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati dei Venezia – di interdisciplinarietà e di rete parliamo molto, ma non siamo capaci di farla, non riusciamo a fare un lavoro di insieme. Fare il lavoro di équipe oggi non significa che ognuno fa il team con i suoi colleghi di stanza, d’ufficio o di ente, ma che dobbiamo essere tutti quanti capaci di cambiare davvero l’approccio. Parliamo tutti la stessa lingua, ma dobbiamo iniziare a parlarla negli stessi posti o quando siamo tutti insieme».
Tra le difficoltà palesate dal legale, con tanti casi concreti presi dalla sua attività quotidiana: il rifiuto ancora oggi di medici di famiglia o psicologi di rilasciare ai loro pazienti, donne o minori, certificati legati in qualche modo alla violenza che sarebbero molto utili in sede giudiziaria. Ma anche trovare elementi di prova per la violenza psicologica o, ad esempio in caso di maltrattamenti, referti medici ben costruiti che ripercorrano l’iter clinico della persona e mettano in evidenza anche la condizione emotiva o psicologica della vittima, da poter usare a processo.

La seconda sinergia da concretizzare è, infine, quella tra ospedale e territorio per conoscere e riconoscere i segnali della violenza di genere in un’ottica di prevenzione. A partire da un dato oggettivo: medici di famiglia e pediatri sono il primo punto di contatto delle persone con il sistema sanitario. «Godiamo di un accesso aperto – ha spiegato il medico di Medicina Generale Chiara Izzo – senza limitazioni, seguiamo generazioni di pazienti, lavoriamo grazie a un rapporto di fiducia che costruiamo con le persone». E la prima fondamentale collaborazione deve avvenire proprio nella gestione del passaggio traumatico per l’adolescente dal fidato pediatra al medico di base che deve essere attento a capire se, al di là del motivo per cui lo vede, ci possano essere sintomi di altri disagi o se il minore sia parte di una famiglia funzionale, disfunzionale o tossica, quella cioè in cui i comportamenti di alcuni componenti provocano problemi emotivi e a volte purtroppo anche fisici agli altri.
Una scarsa tempestività nella presa in carico, la mancanza di una visione di insieme e della condivisione delle informazioni, coinvolgendo ad esempio anche il mondo scolastico, le criticità che medici di famiglia e pediatri riscontrano quando si deve attivare la sinergia con l’ospedale. Criticità che si potrebbero superare istituendo la figura del case manager, che potrebbe unire i diversi professionisti, potenziando i tavoli di lavoro interprofessionali e la formazione dei medici di Medicina generale e dei pediatri, ma anche creando una «comunità educante – ha concluso la relatrice – che non giustifichi sempre questi adolescenti, ma che promuova la loro la consapevolezza e autonomia e li responsabilizzi».

Le sinergie, insomma, devono prendere sempre concretezza e declinarsi nell’attività lavorativa quotidiana di tutti i professionisti che entrano in contatto con la violenza di genere. Dialogo, confronto, relazioni dirette sono l’unica arma per contrastare un fenomeno complesso e sempre più grave. E per far sì che fare rete non resti solo uno slogan.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia