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Donne e ragazzini, le femmine in particolare: sono queste oggi le categorie più a rischio di cadere in una dipendenza dall’alcol soprattutto se si sottovalutano il binge drinking – cioè l’assunzione di diverse bevande alcoliche in un intervallo di tempo più o meno breve, la sbronza del sabato sera con gli amici, per capirsi… – e il consumo moderato abituale, anche senza arrivare all’ubriacatura. E allora, dicono i servizi e le associazioni che lavorano sul territorio per contrastare il fenomeno, è fondamentale intercettare precocemente il problema.
Sono queste le indicazioni arrivate dagli esperti durante il partecipatissimo convegno Alcol: dai problemi agli interventi, organizzato lo scorso 10 giugno nella sede mestrina dell’OMCeO veneziano dal presidente e vice nazionale Giovanni Leoni e da Alessandro Pani, direttore del dipartimento per le Dipendenze dell’Ulss 3 Serenissima, giunto ormai a un passo dalla pensione.
«Sono sempre rimasto colpito – ha sottolineato proprio il presidente Leoni aprendo i lavori – dall’evoluzione dell’ubriaco classico che girava, cantando, per le calli di Venezia. Siamo nati in laguna, in Veneto, e tutti abbiamo visto il consumo di alcol nella nostra esistenza… Ma oggi nei paesi o nelle città, nella riviera o sulla costa, nei più comuni luoghi di ritrovo, nei bar che restano aperti fino alle prime ore del mattino si incontrano  gli aspetti patologici negli adulti, ma anche purtroppo nei giovani».
Comportamenti allarmanti che poco hanno a che fare con il passato, quando «ci si trovava per parlare – ha aggiunto il presidente – e non per bere. L’alcol è diventato ormai un collante: molte volte la vera motivazione della serata. I danni li conosciamo tutti e questa sera li conosceremo anche meglio, accanto, però, alle possibili soluzioni che ognuno di noi può mettere in campo nella propria vita quotidiana».
«Non siamo qua – ha spiegato poi il dottor Pani – per insegnare niente. Questo evento è nato intorno a un tavolo di lavoro, proposto dall’ACAT, l’Associazione Club Alcologici Territoriali di Mestre, con l’obiettivo di coinvolgere i medici del territorio per un confronto. Siamo qui per presentarvi il nostro modo di lavorare, per farvi conoscere l’esistenza della rete alcologica e, appunto, per interagire con voi e stringere sinergie».

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Indispensabile innanzitutto definire il contesto del fenomeno, compito assegnato a Laura Suardi, responsabile dell’UOS SerD Mirano Dolo dell’Ulss 3 Serenissima, che ha subito messo le cose in chiaro: l’alcol «è una sostanza tossica, una droga capace di indurre dipendenza superiore rispetto alle altre sostanze o droghe illegali, e, pur apportando calorie, non è un nutriente».
Secondo le indicazioni dell’OMS, dunque, l’alcol zero sarebbe opportuno, ad esempio, per chi ha meno di 18 anni, se è stata programmata una gravidanza o si sta allattando, se si assumono farmaci, se si soffre di una patologia acuta o cronica, se si deve guidare, andare al lavoro o usare un macchinario – «il 30% degli infortuni sul lavoro è legato all’uso di alcol» – e ovviamente se si hanno altri tipi di dipendenza o se c’è già un disturbo legato alla bottiglia.
Le donne e i ragazzini, in particolare le femmine, le categorie più a rischio secondo l’analisi della relatrice. Gli ultimi dati, relativi al 2022, della sorveglianza nazionale HBSC (Health Behaviour in School-aged Children) dicono che il 9% degli 11enni maschi e il 5% delle coetanee femmine dichiara di aver bevuto alcolici almeno un giorno nell’ultimo mese, con il sorpasso per le 13enni e le 15enni che bevono di più dei loro coetanei maschi. «E tenendo conto – la riflessione della relatrice – che le donne hanno una maggior vulnerabilità all’alcol perché per ragioni fisiologiche sono meno dotate di corredo enzimatico, banalmente pesano di meno e mangiano di meno, questo le espone a rischi non irrilevanti».
Nel 2022 sono aumentate del 2,5% rispetto agli anni precedenti anche le consumatrici adulte – sono circa 2 milioni e mezzo – con il 3,7% che pratica il binge drinking, il 6,1% che eccede quotidianamente e il 23,2% che consuma alcol fuori pasto.
Attenzione, poi, ai danni cerebrali soprattutto per i giovani. «Prima si inizia a consumare alcol – ha spiegato ancora la dottoressa Suardi – più è probabile che si sviluppi un problema di dipendenza, oltre che un danno cerebrale perché interferisce in modo significativo nel normale neurosviluppo. L’effetto cerebrale, inoltre, non svanisce dopo il consumo. E tenendo conto che il modello preferito dai ragazzi è il binge drinking, quindi il consumo in poco tempo di quattro unità alcoliche per le ragazze o più di sei unità alcoliche per i ragazzi, se l’effetto non svanisce, capite quanto sia pericoloso e rischioso per loro».
Tanti i temi affrontati dall’esperta tra cui:

  • l’impatto dell’alcol sul sistema nervoso centrale;
  • la definizione di unità alcolica: il corrispettivo di 12 grammi di alcol contenuto in una birra, in un bicchiere di vino, in un aperitivo o in un superalcolico;
  • il tempo che serve al fegato per smaltire i suoi effetti (almeno 2 ore);
  • le ripercussioni immediate se, ad esempio, ci si mette alla guida: dalla ridotta facoltà visiva laterale alla difficile valutazione della distanza al maggior tempo di reazione;
  • le ben 220 le malattie correlate al consumo di alcol, tra cui il 4,1% del totale dei nuovi tumori, con, ad esempio, una quota compresa tra il 5 e l’11% delle nuove diagnosi di tumore al seno soprattutto per donne giovani e in età fertile;
  • i danni cerebrali, che non risparmiano neanche gli anziani, dato che spesso sfociano in demenza o in problemi cognitivi;
  • l’uso di alcol in gravidanza – «e se la donna beve, beve anche il bambino» – e la sindrome fetale alcolica;
  • le diverse categorie di bevitori, come i consumatori dannosi, circa 750mila in Italia;
  • i dati relativi al 2021 degli accessi ospedalieri caratterizzati da una diagnosi attribuibile all’alcol: 35.307 di cui 68% maschi, 32% femmine; oltre 3.100 accessi di minori in Pronto Soccorso di cui il 18% femmine e l’8% maschi.

«L’alcol – ha sottolineato la relatrice – è la terza causa di mortalità prematura e di malattia in particolare nell'Unione Europea, che ha la più alta percentuale di consumatori e il più alto consumo di alcol al mondo. Si parla di circa 3 milioni di morti all’anno… È anche il principale fattore di rischio tra i giovani e la prima causa di morte per i giovani maschi di età compresa tra i 15 ed i 29 anni. In Italia un giovane su 4 muore a causa dell’alcol».
I dati anche nel territorio dell’Ulss 3 Serenissima parlano chiaro: 249 nuovi pazienti presi in carico nel 2024 per problemi di alcol, che portano il totale delle persone assistite a 952, di cui 251 donne e 701 uomini.
Prima di concludere un appello ai medici di famiglia perché «in Veneto solo il 6,6% di loro consiglia ai bevitori a maggior rischio di bere meno. Su questo dobbiamo assolutamente lavorare. È indispensabile che, se avete qualche sospetto, parliate con i vostri pazienti. Alle donne in gravidanza chiedete se bevono. Chiedetelo ai ragazzi che vengono per la patente. Tutti insieme dobbiamo riuscire ad abbattere i consumi per limitare l’insorgere della dipendenza».

Intercettare questi pazienti, però, è davvero difficile, vuoi per la vergogna di ammettere una simile difficoltà persino al proprio medico, vuoi perché molte persone non lo ritengono un problema. E invece agganciarle in modo precoce è fondamentale per salvarle da una possibile dipendenza. A spiegare la tecnica del colloquio breve motivazionale, che può essere messa in campo dai medici di famiglia e dai pediatri, è stato allora lo psichiatra Roberto Tommarchi, attivo nel SerD Venezia Terraferma soprattutto con i ragazzi dai 14 ai 24 anni.
Parola d’ordine per lui: prevenzione primaria «perché il nostro più grosso problema – ha sottolineato subito – è che noi del SerD vediamo solo persone che sono alla fine di questo percorso, quando la dipendenza è ormai sviluppata o molto avanzata. Talmente ammazzate dalla malattia che io 3 volte su 4 non posso far altro che ricoverarle».
Una prevenzione ancora più necessaria per i giovani, dati gli impatti nefasti sullo sviluppo neurocerebrale, che prosegue dagli 0 ai 25 anni. «Un decadimento cognitivo soft – ha aggiunto l’esperto – che può portare a problemi di memoria, di attenzione, di processo logico-deduttivo, che impatta su tutte le funzioni cognitive superiori, che poi magari vengono confuse con una depressione lieve o un disturbo dell’apprendimento, che invece centrano poco».
I medici si ritrovano a sbattere tra falsi miti da sfatare – due bicchieri di vino al giorno fanno bene, l’influenza si cura con la grappa della nonna… – e la necessità di far prendere al paziente consapevolezza, di capire che idea ha quella persona dell’alcol.
Il colloquio motivazionale, allora, deve prendere avvio dall’ascolto: lasciar parlare i pazienti senza interromperli e senza imporre di fare una cosa o l’altra, analizzare la loro rappresentazione mentale e cercare di introdurre piano piano degli elementi di riflessione. «Deve essere una negoziazione – ha spiegato lo psichiatra – del tipo: “Sì, bevo tre bicchieri di vino”. “E allora perché non provi a restare su due?”. Dobbiamo capire cosa motiva la persona a cambiare».
In seconda battuta, poi, bisogna spingere sui vantaggi che porterebbe un cambiamento di stile di vita – più soldi in tasca, miglior vita sociale, migliori performance – e valorizzare ogni piccolo cambiamento, mettendo target raggiungibili e, quando un obiettivo è consolidato, proporne uno di un po’ più ambizioso. «L’intervento – ha aggiunto il dottor Tommarchi – deve essere centrato sulla persona, non sulla malattia»
La strategia migliore è sempre quella di fare la domanda aperta al paziente perché quella secca – quanto vino bevi? – non porta assolutamente a niente. Altro nodo chiave: rinforzare in modo positivo quando la persona fa qualcosa di utile per la sua salute e non criticare più di tanto quando fa qualcosa di negativo. Censurare il comportamento sbagliato non funziona.
«Nel momento in cui – ha detto il relatore – noi riusciamo in qualche modo a instaurare una comunicazione non giudicante, il paziente si sente sollevato perché sa che non siamo lì per dirgli cosa deve o non deve fare, ma per ascoltarlo e dare una mano. Quindi riesce a focalizzare il problema e a essere più sincero, più genuino nella narrazione».
Le abilità di base per il colloquio motivazionale sono, dunque: l’ascolto riflessivo, le domande aperte, il riassunto e il sostegno. «Interventi brevi – la conclusione del dottor Tommarchi – che hanno però provata efficacia se il paziente non è ancora in una fase di pesante dipendenza».

Ridurre lo stigma parlando al paziente di “disturbo d’alcol” e non di “alcolista” la prima preoccupazione del dottor Sebastiano Bianchi, medico di famiglia a Venezia, nel suo approccio iniziale con chi è potenzialmente a rischio. E tra questi ultimi e gli etilisti veri in Italia sono davvero tanti: secondo i dati ISTAT del 2023, 13 milioni di persone, su una popolazione di 60, di cui un milione 260mila giovani e, tra questi, 615mila minorenni. Il Veneto fa la sua discreta parte con 1,3 milioni di persone, il 10% del totale nazionale. «Cifre, però – ha precisato il relatore – di sicuro sotto stimate perché ottenute attraverso questionari. Ed è ragionevole pensare che la popolazione non risponda in modo sincero perché non vuole accettare il problema. Un problema che è, tra l’altro, trasversale: riguarda il povero e il ricco, tante fasce di popolazione».
Il medico di famiglia, allora, riesce a intercettare il fenomeno quando il paziente, pur inconsapevole di avere un problema, gliene parla: a quel punto sta al professionista far capire alla persona che il suo è un consumo a rischio.
«Sul fronte giovani – ha spiegato il dottor Bianchi – al di là di quelli già depressi o in difficoltà, il problema più grosso è che questa dipendenza si sviluppa in modo subdolo, attraverso la socialità e la convivialità. I ragazzi hanno tantissimo tempo libero, diversi amici e zero preoccupazioni». Facile immaginarne uno che la prima sera va a fare l’aperitivo con il suo gruppo, la seconda con la squadra di calcetto, la terza esce con la fidanzata e la quarta va a bere qualcosa più sofisticato… «Di fronte a questo – ha aggiunto – noi dobbiamo avere un diverso approccio terapeutico e diagnostico perché siamo di fronte a persone contente e felici della loro vita, che escono, che hanno tante relazioni. Quindi è molto più difficile intervenire perché non percepiscono di avere un problema da da risolvere».
Difficile, poi, che il paziente giovane abbia segni evidenti o sintomi e, dato che si vede poco in ambulatorio, bisogna saper cogliere quelle rare occasioni. Una volta individuato un ragazzo a rischio, si può far leva sugli effetti dell’alcol sulla sua vita – l’aspetto fisico, le disfunzioni sessuali, la performance scolastica e universitaria in rapporto poi alla carriera – supportando le diverse informazioni con gli studi clinici «perché i giovani – ha sottolineato il medico – sono molto smart e vanno a controllare in rete se ciò che diciamo loro è reale».
A questo punto, d’accordo con il paziente, il medico di famiglia prescrive esami di routine per controllare se ci sono alterazioni e, grazie ad alcuni studi, anche per capire quale sia il suo reale consumo alcolico.
«Il nostro compito – le conclusioni del dottor Bianchi – è promuovere stili di vita corretti a prescindere se ci sia o meno un consumo a rischio e informare la la popolazione dei danni dall’alcol. Non dobbiamo imporre al paziente il nostro pensiero (smettere di bere), ma contrattare con lui, fissando obiettivi realistici per le sue capacità. Non dobbiamo essere troppo ambiziosi perché altrimenti rischiamo che non segua le nostre indicazioni. In caso, infine, si scopra un caso avanzato di dipendenza, dobbiamo avviare la persona verso i servizi competenti».

E quali sono, allora i servizi di supporto presenti sul territorio? Di sicuro i SerD e la rete alcologica illustrati da Annarosa Pettenò e Andrea Ruffato, psichiatra la prima ed educatore il secondo dei servizi per le dipendenze Venezia Terraferma dell’Ulss 3 Serenissima.
Fondamentale innanzitutto il concetto di rete, espressione di una comunità che lavora tutta insieme, in cui si inseriscono le relazioni, le comunicazioni, le interazioni, le cooperazioni tra progetti diversi e tra persone diverse. Un intreccio importante perché un solo medico, un solo operatore sanitario non potrebbe farsi carico di tutto il lavoro, «mentre facendo squadra – ha sottolineato la dottoressa Pettenò – è possibile: alla fine ci guadagniamo tutti. La persona che trova una risposta complessa, globale, e ognuno di noi che fa il suo pezzettino. La rete è riuscire a fare un lavoro insieme più ampio rispetto a quello che ognuno di noi potrebbe fare da solo con tutta la buona volontà».
Due i livelli, strettamente interconnessi tra loro, di cui si compone la rete alcologica territoriale: un primo in cui si trovano gli operatori che si occupano di prevenzione primaria, promozione della salute, screening, identificazione precoce delle persone a rischio e intervento breve, di cui fanno parte, ad esempio, i medici di famiglia e i pediatri, ma anche le associazioni che lavorano nelle scuole, le commissioni mediche, le aziende o gli enti locali. E un secondo livello, invece, più specialistico, di cui fanno parte a vario titolo tutti gli operatori che si prendono cura della persona con un disturbo da uso di alcol e del suo sistema famiglia: gli esperti del SerD, i reparti ospedalieri, i centri di riabilitazione, i servizi sociali e a bassa soglia.
Uno dei nodi della rete alcologica è proprio il SerD, il servizio per le dipendenze, che ha lo scopo di concertare gli interventi efficaci da attuare nel territorio e che, per l’Ulss 3 Serenissima, articola il proprio lavoro in ognuno dei 4 distretti: Venezia centro storico, Venezia Terraferma, Mirano Dolo e Chioggia. «Il SerD – ha spiegato il dottor Andrea Ruffato – è il servizio che si occupa di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione delle persone che hanno sviluppato delle problematiche di consumo di sostanze lecite e illecite, tra cui anche l’alcol. In tutte le nostre sedi il trattamento del paziente è multiprofessionale e multidisciplinare: la persona viene presa in carico da vari operatori che non intervengono tutti in ugual misura o contemporaneamente, ma a seconda dei bisogni».
Negli ambulatori operano ovviamente i medici, ma anche gli psicologi, gli psichiatrici, gli psicoterapeuti, gli educatori, gli infermieri professionali e gli operatori sanitari. Nella fase di accoglienza si identificano i problemi della persona e poi si avvia il trattamento che può essere ambulatoriale, quindi svolto prevalentemente nelle sedi del SerD, esterno o residenziale, da fare cioè nelle comunità terapeutiche, con percorsi di durata diversa perché ritagliati sulla persona, estremamente individualizzati.
Tra gli strumenti a disposizione del dipartimento anche l’Osservatorio locale per le Dipendenze patologiche il cui colpito è analizzare il fenomeno nel territorio veneziano, raccogliendo dati qualitativi e quantitativi in modo sistematico per calibrare al meglio gli interventi da fare e spendere nel modo più opportuno ed efficace le risorse del fondo biennale per le dipendenze che arrivano dalla Regione.
E come arriva il paziente al SerD? Può arrivare in maniera spontanea o indirizzato dai medici di famiglia, dai pediatri o dagli altri servizi che collaborano con il dipartimento. C’è un accesso diretto, non servono impegnative e non ha alcun costo, non c’è nessun ticket da pagare. (Tutte le info qui: https://www.aulss3.veneto.it/organizzazioni/dipartimento-per-le-dipendenze-serd).

Altro importante nodo di sostegno sul territorio è l’Associazione Club Alcologici Territoriali (ACAT), guidata da Paola Bergo: un gruppo di volontari nato nella seconda metà degli anni ‘80, attivo sull’area mestrina, «che – ha spiegato la presidente – promuove la salute e sostiene le famiglie che vivono legami importanti con uso di alcol, di sostanze, azzardo e fragilità esistenziali. Promuoviamo una cultura della sobrietà attraverso l’approccio ecologico sociale, ideato dal professor Vladimir Hudolin, uno psichiatra e neurologo croato, che ha lavorato a lungo sul problema dell’alcol».
Alla base di questo approccio la consapevolezza di come l’intervento centrato solo sulla persona e sul problema si dimostri quasi sempre assolutamente insufficiente. Da qui l’idea di riconoscere i legami tra le persone e le diverse componenti della comunità e avviare programmi per modificare la cultura generale, sanitaria e sociale nei confronti delle bevande alcoliche.
«Secondo questo approccio – ha sottolineato Paola Bergo – l’alcolismo non è visto come una malattia e nemmeno come un vizio, ma come uno stile di vita che nasce e matura proprio negli ambienti di vita. Quindi l’attenzione si sposta dalla persona al problema che diventa protagonista della possibilità concreta del proprio cambiamento».
Il bere, insomma, è un comportamento e il problema alcolico correlato è un disturbo che non coinvolge solo la singola persona, ma tutta la famiglia che «quando entra in contatto con l’alcol si organizza in modo anche disfunzionale per affrontare il problema o non affrontarlo».
Il club diventa così una sorta di comunità multifamiliare: un gruppo di famiglie che si incontra una volta alla settimana in un posto fisso, in un giorno e orario fisso, per raccontare le proprie esperienze, le gioie e le difficoltà e condividere un percorso di sobrietà e cambiamento di stile di vita, con la guida esperta del servitore insegnante, che facilita la comunicazione. «Noi lo definiamo – ha aggiunto la presidente ACAT – una palestra di relazioni, uno spazio accogliente di confronto a cui si chiede di partecipare alla famiglia o a un amico solidale».
Dai volontari ACAT anche una proposta culturale indirizzata direttamente all’Ordine con, da una parte, programmi territoriali di incontro con la comunità per avviare un cambio di linguaggio, più inclusivo e meno stigmatizzante. E dall’altra il materiale informativo sui club da lasciare negli ambulatori medici. «Perché – hanno spiegato – “alcolista” sembra un timbro, una cosa indelebile, una lettera cucita. Parlare, invece, di problemi alcoolici correlati dà una visione di respiro più ampia e soprattutto di cambiamento». Un primo corso di sensibilizzazione è in programma a San Donà in due weekend di di ottobre (qui il pdf del programma:  pdf CorsoACATSanDonà Ottobre2025(457 KB) ).
Di grande impatto, infine, la conclusione della serata con la testimonianza di due frequentatori del club Gian Pietro Ducato, con problemi di dipendenza, e Gianpietro Cecchetti, un familiare solidale. «Al club – ha raccontato Ducato – puoi discutere dei tuoi problemi, delle tue gioie, di quello che fai durante la settimana senza essere giudicato… L’alcol stimola i nostri recettori del piacere. Tutti ne abbiamo per ilo cibo, ad esempio, o lo sport o il sesso. Ma ci arriviamo un po alla volta. L’alcol, invece, tronca questa curva e tu arrivi direttamente al piacere. Il problema qual è? Che all’inizio al mio corpo basta una birra, il giorno dopo ne servono 2, poi 3 o 5. E alla fine per arrivare al piacere mi devo ubriacare».
Un percorso di uscita che è lungo e faticoso e passa attraverso la volontà di togliersi il vizio, i tremori per la crisi d’astinenza, la motivazione che spinge a voler cambiare e la determinazione per tenere fede ai propri propositi.
È un amico con «un legame critico molto forte, problematico con l’alcol, tale da trovarsi per strada, dopo aver perso il lavoro, la famiglia e la gioia di vivere» ad avvicinare l’altro Gianpietro al club di ACAT. «Entrava in ospedale – il suo racconto – per disintossicarsi, poi usciva, durava qualche mese e ci ricadeva. Una cosa andata avanti anni, anni e anni. A un certo punto gli è stato proposto di fare questa esperienza e io l’ho accompagnato perché la famiglia non voleva saperne di lui».
Inizia lì il suo percorso che dura ormai da 13 anni. «Il mio amico – ha aggiunto – non ha più bevuto. Ho toccato con mano una cosa che funziona: le persone riescono a cambiare stile di vita. Sono relazioni con chi ha storie di vita molto particolari, molto intense: il club è un momento di crescita personale dove si impara a dialogare, a rispettare l’altro, ad ascoltare».

Tanti e diversi, insomma, i problemi legati all’abuso dell’alcol, tante le persone a rischio se non vengono intercettare precocemente. Ma anche tanti i servizi di sostegno a disposizione, troppo spesso, però, poco conosciuti sia dalle famiglie, sia dai medici attivi sul territorio, la cui collaborazione è indispensabile.
«Stasera io per primo – ha tirato le conclusioni il presidente Giovanni Leoni affiancato dal suo vice Cristiano Samueli e dal segretario Paolo Sarasin – ho colmato una lacuna culturale. Come Ordine ci impegniamo a dare la massima collaborazione e pubblicità alle vostre attività sui nostri canali per informare e sensibilizzare i colleghi». Ma anche per diventare un nodo di quella rete fondamentale a contrastare la dipendenza da alcol, un fenomeno sempre più dilagante.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia