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Spingere i medici, gli odontoiatri e, più in generale, gli operatori sanitari a prendere consapevolezza dei problemi ambientali, a capire che anche il loro lavoro ha un impatto inquinante sul pianeta, che deve essere ridotto, e aggiornarli sotto il profilo scientifico.
Questi gli obiettivi dichiarati di Curare la Terra,l’Ambiente è Salute, il convegno inserito nel programma di Venezia in Salute 2022 (#VIS2022), organizzato sabato 24 settembre all’Auditorium del Museo M9 di Mestre, dall’OMCeO lagunare e dalla sua Fondazione Ars Medica, per la prima volta in collaborazione con la sezione veneziana di ISDE (Associazione Italiana Medici per l’Ambiente).
«I problemi ambientali per il medico sono un dovere deontologico» ha chiarito subito il presidente dell’Ordine e vice nazionale Giovanni Leoni, accogliendo i partecipanti e salutando tutti i partner dell’iniziativa. «I temi ambientali – ha aggiunto – sono all’ordine del giorno: pensiamo a cosa è successo nelle Marche, l’alluvione di pochi giorni fa, o ai Pfas… Esiste un articolo dedicato nel nostro Codice sull’interesse del medico alla cura dell’ambiente per la salute pubblica e della comunità: a quello dobbiamo fare riferimento».

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Consegnare alle nuove generazioni un mondo se non migliore, almeno uguale e non peggiore, l’appello arrivato da Simone Venturini, assessore alla Coesione sociale e alla Programmazione sanitaria del Comune di Venezia, da sempre partner istituzionale di #VIS. «Il tema ambientale – ha aggiunto – riguarda la nostra città più di ogni altra. Venezia è molto esposta ai cambiamenti climatici e all’inquinamento, ma oggi si candida a diventare capitale della sostenibilità. Dopo la parentesi Covid, in cui si parlava di sanità h24, oggi il tema è sparito dal dibattito pubblico. Per questo è prezioso e importante essere qui con #VIS».
Una manifestazione, Venezia in Salute, che, secondo Marina Bottacin, presidente dell’Ordine lagunare delle Professioni Infermieristiche (OPI), è diventata ormai patrimonio di tutti. «Noi che ci prendiamo cura delle persone – ha sottolineato – non possiamo non prenderci cura dell’ambiente e della nostra Terra. Il binomio salute & ambiente è imprescindibile e gli infermieri ne stanno prendendo consapevolezza indirizzandosi verso pratiche infermieristiche sostenibili».
Sul palco dell’Auditorium è salita anche Francesca Ciraolo, direttore sanitario dell’Ulss 4 Veneto Orientale che, con l’altra azienda sanitaria veneziana, l’Ulss 3 Serenissima, è da anni partner istituzionale di #VIS. «Anche nel nostro territorio – ha spiegato – affrontiamo i problemi ambientali: l’anno scorso grazie ad alcuni casi di gastroenterite a Bibione abbiamo scoperto un problema di scarichi, quest’anno abbiamo avuto a che fare con la siccità a Caorle… Facciamo interventi di carattere intersettoriale per garantire la salute di tutti».

Perché parlare di salute e ambiente?
Ma perché parlare proprio di salute e ambiente? Perché medici e operatori sanitari dovrebbero interessarsene? A spiegarlo, aprendo così il convegno, Gabriele Gasparini, presidente della Fondazione Ars Medica, vero motore dell’organizzazione di questa dodicesima edizione di Venezia in Salute, sottolineando subito l’importanza di adottare sempre il metodo scientifico e della multidisciplinarietà, che ha fatto allargare quest’anno l’orizzonte di #VIS alle altre professioni sanitarie: non solo OPI Venezia, ma anche l’Ordine TSRM e PSTRP Venezia e Padova (tecnici sanitari e della riabilitazione) e l’Ordine Interprovinciale delle Ostetriche.
«Ha senso alterare a tal punto l’ambiente da renderlo inospitale oggi e per le generazioni future?» si è chiesto mostrando immagini di città altamente inquinate, di fiumi in secca, di rive colme di plastica e di coltivazioni troppo intensive. «Noi siamo la Terra – ha sottolineato – e spesso la nostra tecnologia risolve un problema, ma ne crea altri due. L’idea “Win loose, win win” ci contrappone: questo non funziona per il pianeta». Fondamentale, allora, trovare una condivisione su un piano diverso di interessi comuni.
«I sanitari – si è chiesto ancora il dottor Gasparini – considerano che le armi usate per curare le malattie possono essere fonti di inquinamento?». I gas anestetici in sala operatoria o i farmaci, il consumo energetico delle grandi macchine, le strutture ospedaliere poco green, l’inappropriatezza di certi test diagnostici, le radiazioni ionizzanti, solo per fare qualche esempio… Difficile che il mondo sanitario conosca la propria impronta inquinante sul pianeta, nessuno poi ha mai chiesto di ridurre l’azione inquinante legata alle cure.
«Da qui – la sua conclusione – l’importanza di occuparci di ambiente e salute. Continueremo a lavorare nei prossimi mesi, sempre insieme a ISDE, ma anche a Choosing Wisely Italy con il suo slogan “Fare di più non significa fare meglio”, con Slow Medicine e con Building Trust, che promuove la fiducia nell’assistenza sanitaria».

La componente culturale
Tutta culturale, come da impronta tipica delle iniziative dell’Ars Medica, la prima parte del convegno che ha visto protagonisti i risultati di un questionario su salute e ambiente promosso a luglio tra gli iscritti dell’Ordine, le riflessioni filosofiche del professor Luigi Vero Tarca e l’analisi green dell’ENPAM con il presidente Alberto Oliveti, collegato in streaming.

Con 608 questionari compilati in piena estate, una partecipazione al 13%, ha avuto un discreto successo l’idea di Ordine e ISDE di proporre tra gli iscritti veneziani un sondaggio «per conoscere la sensibilità dei colleghi su questi temi – ha spiegato il pediatra Paolo Regini, presidente della sezione lagunare di ISDE, che ha coordinato l’iniziativa con la giornalista Chiara Semenzato – sondarne le reali competenze e capire se sia necessaria una formazione ad hoc su salute e ambiente».
I risultati parlano chiaro: il tema interessa molto alla categoria, che dichiara competenze appena sufficienti, il 51%, o addirittura scarse, il 26%. Competenze poi confermate nei fatti dalle domande quiz specifiche con 6 casi su 11 in cui la maggioranza ha risposto in modo corretto.
L’inquinamento dell’aria è risultato il tema top, quello indicato dai partecipanti come il principale problema ambientale in tutti i territori dell’area metropolitana a cui fanno riferimento. «Da diverse risposte – ha sottolineato il dottor Regini – si capisce che è il tema più “sentito” dalla categoria, quello che i colleghi tengono di più sotto controllo e che forse conoscono meglio. Probabilmente perché è anche quello di cui i media e l’opinione pubblica si occupano di più».
Competenze più traballanti, invece, sugli inquinanti all’interno degli edifici o sui pesticidi presenti nelle acque sotterranee, fenomeno la cui dimensione è assai sottostimata, ma anche sulle due cause principali dello smog: riscaldamento e allevamenti intensivi figurano al terzo e al quarto posto delle risposte, con dominio netto, invece, di industrie e traffico «che, evidentemente – ha aggiunto il pediatra – nell’immaginario collettivo anche della classe medica si sono consolidati come luoghi comuni».
Clamoroso e preoccupante, poi, che i colleghi “cadano” sulle patologie: appena il 18% sa che quelle cardiovascolari presentano una mortalità più elevata legata a fattori di rischio modificabili di natura ambientale, rispetto alla broncopneumopatia cronica ostruttiva e al cancro.
«Dal questionario insomma – ha concluso il dottor Regini – arrivano messaggi chiari. La formazione su questi temi è indispensabile: c’è l’esigenza di approfondire (ce lo chiedono punte tra l’85 e il 96% dei partecipanti) in particolare i temi dell’inquinamento di cibo e acqua e dei cambiamenti climatici. Il nostro lavoro andrà in questa direzione». (In allegato il report completo sui risultati: pdf Questionario Report (901 KB) ).

Una riflessione di più ampio respiro è stata poi proposta dal filosofo Luigi Vero Tarca, in collegamento streaming, che da anni affianca l’Ordine di Venezia nei suoi percorsi formativi e verso cui, come ha sottolineato il dottor Gasparini, «abbiamo un debito culturale inestinguibile». Alla base del ragionamento, suggerito dal medico psicoterapeuta Marco Ballico, coordinatore del Comitato scientifico dell’Ars Medica in dialogo con l’ospite, l’idea che la pandemia abbia influito, e non poco, sulla direzione che sta prendendo il mondo, sul modo di vivere, sui consumi e sulle relazioni umane. «Da un clima di grande fiducia – ha sottolineato il dottor Ballico – soprattutto verso i medici e il personale sanitario, siamo passati ora alla diffidenza, al sospetto, finanche al complottismo. Parlando, oggi, di salute e ambiente, il timore è che questo possa far emergere nella popolazione lo stesso clima di sfiducia e di incertezza».
Proprio su questa perdita di fiducia, allora, si è soffermato il professor Tarca, sottolineando come il problema sia nato in realtà ben prima della pandemia, a causa di un’aspettativa troppo alta nei confronti dei miracoli della medicina, «che poi porta inevitabilmente alla contrapposizione – ha precisato – quando le attese non vengono rispettate. Tanto più la medicina si è appoggiata alla scienza, poi, quasi appiattendosi su di essa, tanto più la perdita di fiducia sembra essersi aggravata».
A pesare, secondo il filosofo, la dicotomia tra scienza e società scientifica. «La scienza – ha spiegato – non è opinabile. E se una cosa è indiscutibile, non può scatenare polemiche. Come è possibile allora che sulla scienza ci siano opinioni contrastanti? Ha senso chiederci di avere fiducia nella scienza? Nella scienza si dispone una procedura: la scienza è innegabile perché tutti gli umani sono d’accordo sulle procedure».
Diverso, invece, il discorso per la comunità scientifica che può essere discutibile «perché – ha sottolineato il professor Tarca – la comunità scientifica è un organismo umano, costruito dall’uomo. Si sono volute far passare come scientifiche, cioè inopinabili e indiscutibili, questioni che sono ampiamente opinabili e discutibili: questo ha compromesso la fiducia sia nella medicina sia nella scienza. E questa perdita di fiducia è catastrofica: così non si salva più niente, non c’è una soluzione, se non affrontare il problema».

«Ogni nostro gesto, ogni nostra attività ha ricadute sull’ambiente e sulla salute»: è partito da qui il vicepresidente dell’Ordine Maurizio Scassola per presentare Alberto Oliveti, guida della Fondazione ENPAM, che ha chiuso la parte culturale del convegno con un’analisi per spiegare come sostenibilità, tutela ambientale e previdenza siano settori tra loro collegati. «Per troppo tempo – ha spiegato in apertura – siamo stati abituati a una visione antropocentrica, ora dobbiamo dare sostanza a una visione One Health, un’unica salute per il pianeta, che coinvolga la salute degli umani, quella degli animali e quella climatica e ambientale. Essere un ente di previdenza significa anche pre-vedere, cercare di anticipare le proprie politiche, le proprie scelte, prevedendo in maniera logica e coerente gli scenari futuri e prevenendo gli avventi avversi».
I disastri idrogeologici anche recenti, i dati sulla popolazione italiana a rischio a causa di eventi ambientali, l’impennata dell’inflazione e dei costi energetici, la necessità di interventi decisi, la crisi della globalizzazione tra i temi affrontati dal presidente Oliveti. «Bisogna investire – ha concluso – su progetti che portino politiche ambientali positive: sul fronte della gestione e distribuzione delle acque, ad esempio, o su quello dell’agricoltura. Anche da qui passa il concetto di One Health e di una sostenibilità che riguardi la salute della popolazione».

Problemi del territorio: l’approfondimento scientifico
Di altissimo livello gli approfondimenti scientifici arrivati da relatori tutti legati a ISDE. Il primo tema affrontato è stato quello dell’agricoltura intensiva legata alla salute dei più piccoli analizzato dal pediatra Giacomo Toffol, presidente di ISDE Treviso, presentato da Morena Corradini, medico di famiglia e componente del Comitato Scientifico dell’Ars Medica.
«L’agricoltura intensiva – ha chiarito subito – è l’agricoltura “industrializzata”, che vuole sfruttare al massimo la capacità produttiva del terreno. La monocultura prevede, invece, che vaste zone di territorio siano dedicate alla coltura di un’unica specie vegetale. In Veneto, ad esempio, la monocultura delle viti da prosecco. Ma quanto è sostenibile questo tipo di agricoltura?».
I dati che riguardano la nostra regione parlano chiaro: negli ultimi 10 anni la superficie a vite è aumentata del 20%, quella a prato-pascolo è diminuita del 31 %. Agricoltura intensiva, però, significa esposizione ai pesticidi, per difendere le coltivazioni, e uso intensivo di acqua, suolo ed energia. Per questo tipo di agricoltura, insomma, serve una grande quantità di pesticidi «e in Veneto – ha aggiunto il pediatra – si vendono ogni anno 16.500 tonnellate di prodotti fitosanitari, che hanno vari gradi di tossicità».
E dove vanno a finire questi pesticidi? Possono migrare e lasciare residui nell’ambiente e nei prodotti agricoli, con un rischio immediato e nel lungo termine sia per l’uomo sia per gli ecosistemi perché si disperdono nell’aria, nel suolo, nell’acqua, sia superficiale che sotterranea, e nell’organismo. «Se ne trovano ad esempio – ha segnalato il pediatra – nel 45% dei parchi gioco».
Tante le vie d’esposizione: dal latte materno agli indumenti di lavoro, dall’uso di repellenti per insetti alle piscine. «La via di esposizione più importante per la popolazione però – ha specificato il dottor Toffol – è attraverso gli alimenti: in particolare per i pesticidi organo clorati e gli organo fosfati».
Il relatore ha così passato in rassegna i rischi che si corrono se esposti a questi prodotti: l’aborto spontaneo, ad esempio, o i difetti congeniti, l’alterazione del sistema endocrino o di quello riproduttivo, ma anche leucemie e tumori «perché – ha aggiunto – è dimostrata dagli studi un’associazione positiva e spesso significativa tra rischio di cancro ed esposizione a pesticidi indoor e outdoor, in particolare durante la gravidanza e nei primi 2-3 anni di vita».
Di qui i consigli utili per ridurre i rischi:

  • evitarne l’ uso in casa o giardini;
  • se necessari:
    - conservarli nei contenitori originali, con guarnizioni a prova di bambino, fuori portata, in un armadietto chiuso a chiave;
    - usare dispositivi di protezione;
    - nel periodo dei trattamenti evitare di soggiornare, di passeggiare o di giocare all’aperto e di arieggiare le abitazioni.

Sconosciuto ai più, anche nella classe medica come si è visto dai risultati del questionario, il secondo tema affrontato è stato l’inquinamento degli ambienti chiusi e i suoi effetti sulla salute. Ne ha parlato la pediatra Silvia Girotto, segretario di ISDE Venezia, presentata dal medico di famiglia Martina Musto, vicepresidente dell’Ars Medica.
«L’inquinato indoor – ha spiegato – è la presenza nell’aria di case, scuole, luoghi ricreativi, mezzi di trasporto e posti di lavoro non industriali di inquinanti chimici, fisici o biologici di solito non presenti nell’aria esterna. E dato che la popolazione passa il 90% del suo tempo al chiuso, l’esposizione indoor ad agenti tossici risulta da 10 a 50 volte superiore rispetto a quella outdoor». Dati che danno subito la dimensione del problema.
Ma perché dentro casa l’aria è più inquinata? Per effetto dell’ “intrappolamento” dell’aria esterna, attraverso l’azione adsorbente di pareti, mobili, pavimenti e suppellettili varie; per gli inquinanti propri dell’abitazione, dalla polvere alle vernici, per capirsi; a causa delle attività umane, dal fumo all’uso di stampanti laser, dai fuochi per cucinare ai prodotti per la pulizia, «i cui agenti possono essere rilasciati anche solo tenendoli in casa».
«Gli effetti – ha sottolineato la dottoressa Girotto – possono essere a breve termine e presentarsi dopo una singola esposizione o dopo esposizioni ripetute a un singolo inquinante a lungo termine e si manifestano dopo un’esposizione prolungata a livelli di concentrazione anche lievi o dopo esposizioni ripetute, anche dopo anni dall’esposizione. Questo tipo di inquinamento può rappresentare un importante cofattore nella genesi delle malattie cardiovascolari e di altre malattie sistemiche. Alcuni inquinanti possono contribuire all’aggravamento di patologie preesistenti».
Dalla relatrice uno sguardo, allora, alle patologie correlate:

  • la Sindrome dell’edificio malato con manifestazioni cliniche aspecifiche – prurito, lacrimazione, congestione nasale, cefalea… – che si risolvono nel giro di qualche ora o qualche giorno dopo essere usciti dalla struttura;
  • le malattie associate agli edifici cioè legate a uno specifico agente causale presente nell'ambiente: l’asma, ad esempio, l’alveolite allergica o la legionellosi;
  • la Sindrome da sensibilità chimica multipla: un disturbo cronico che può portare stanchezza, turbe neurologiche, dolori muscolari o disturbi gastrointestinali.

I bambini sono tra i soggetti più a rischio «perché – ha specificato la pediatra – non sono piccoli adulti: hanno superficie corporea in proporzione maggiore, organi in fase di sviluppo, sistemi immunitario, nervoso, ecc. ancora immaturi, metabolismo più rapido e un’aspettativa di vita lunga».
Tante, però, in realtà, le cose che si possono per ridurre i rischi. A livello di comunità internazionale, ad esempio, si possono mettere al bando sostanze chimiche o prodotti e promuovere tecnologie sostenibili non inquinanti. A livello personale, invece, servono comportamenti virtuosi:

  • non fumare in casa e in auto;
  • tenere una temperatura sui 19-20 gradi con l’umidità relativa intorno al 50%;
  • garantire una buona ventilazione con ricambio d’aria frequente;
  • controllare il funzionamento di stufe a legna e caminetti;
  • fare le manutenzioni di caldaia e del condizionatore;
  • ventilare per 48-72 ore i locali dove vengono collocati nuovi mobili,tappeti o tappezzerie;
  • lasciare all’aria gli abiti lavati “a secco” prima di riporli;
  • limitare drasticamente l’uso di insetticidi, erbicidi, fungicidi, tarmicidi;
  • privilegiare prodotti ecologici (bicarbonato, aceto) per le pulizie;
  • per colori e vernici preferire pitture ad acqua, più ecologiche;
  • evitare deodoranti per la casa e fumi di candela;
  • arieggiare i locali dopo l’uso di stampanti laser e fotocopiatrici.

«La qualità dell’aria negli ambienti chiusi – ha concluso la dottoressa Girotto – è molto importante per la nostra salute. Servono altri studi per poter meglio istituire delle politiche efficaci. Ma ogni cittadino e ogni medico deve essere consapevole di quello che può fare sia negli ambienti in cui vive, sia come parte attiva nella società per sollecitare queste politiche».

Tema, purtroppo, balzato da anni agli onori delle cronache in Veneto quello delle sostanze perfluoroalchiliche, PFAS, e della contaminazione sia ambientale sia della catena alimentare, illustrato dall’ematologo Vincenzo Cordiano, presidente veneto di ISDE e primo medico ad aver sollevato il problema nella nostra regione, presentato da Roberto Parisi, angiologo e tesoriere dell’Ars Medica.
Molecole che hanno rivoluzionato praticamente ogni aspetto della vita moderna, dall’arte culinaria alla scienza missilistica, le PFAS sono quasi completamente assorbite per via orale e per inalazione. Ma perché sono pericolose? «Perché – ha spiegato il relatore – si accumulano e sono indistruttibili: quelle più note sono inerti, non biodegradabili e non metabolizzate… Pertanto persistono nell’ambiente. Quando, ad esempio, i ghiacciai si sciolgono, vengono liberate le PFAS intrappolate».
Sono 21 le sostanze classificate: tra le vie principali di esposizione c’è l’acqua potabile, ma il 10-12% dei campioni di alimenti esaminati in Veneto contiene quantità rilevabili di almeno una PFAS, con uova, fegato, frattaglie, muscolo di carni e pesci tra i cibi più a rischio. «Queste sostanze – ha aggiunto il dottor Cordiano – sono tossiche perché vanno ad attivare dei ricettori che interferiscono con il metabolismo e con i recettori nucleari. Gli studi clinici e le ricerche, condotti anche nelle zone rosse della nostra regione, hanno raccolto prove sufficienti per parlare di causalità nell’insorgenza di alcune patologie tra cui l’aumento del colesterolo, il cancro al rene o alla mammella, le malattie della tiroide, l’infarto del miocardio».
Dai cosmetici ai prodotti per l’igiene, dalle benzine alla polvere in casa, dall’acqua piovana all’Everest alla fossa del Giappone, le PFAS sono ormai dappertutto. «Sono molecole per l’eternità – ha concluso l’ematologo – che una volta immesse nell’ambiente resistono. Ognuno di noi le ha addosso, le respira di notte. Bisognerebbe tornare alla vita di una volta».

Un killer silenzioso: così ha definito l’inquinamento atmosferico, percepito dai più come il problema ambientale a più alto impatto sulla salute, la pediatra Vitalia Murgia del Comitato Scientifico Nazionale ISDE Italia, presentata dalla collega Angela Barachino, consigliere dell’Ars Medica nell’ultima relazione del convegno di Venezia in Salute.
«Nove persone su dieci nel mondo – ha spiegato snocciolando dati – respirano aria inquinata. A livello globale, lo smog è il quarto fattore di rischio principale per la mortalità: si stima che nel 2019 l’inquinamento atmosferico abbia contribuito a quasi 7 milioni di morti in tutto il mondo, quasi il 12% del totale». In Europa si contano 500mila vittime all’anno, in Italia «in un silenzio quasi assoluto» muoiono 60mila persone all’anno, con costi collegati stimati nel nostro Paese fra i 47 e i 142 miliardi di euro all’anno.
A fare danni è la capacità di penetrazione del particolato, una miscela complessa di particelle sia solide che liquide, disperse in un mezzo gassoso. «Le particelle ultrafini solide – ha sottolineato la dottoressa Murgia – sono come un cavallo di Troia: solide e poco solubili possono spostarsi verso siti extrapolmonari, quali interstizi, linfa e circolazione sanguigna. Il particolato può arrivare a livello cerebrale attraverso i nervi cranici». Più le particelle sono piccole, maggiore è la loro superficie totale e quindi maggiore il carico potenziale di agenti tossici che possono adsorbire e veicolare.
Non solo, però, respiro, cuore e cervello vengono danneggiati dall’inquinamento atmosferico, che può incidere anche sul sistema metabolico. Per quanto riguarda i più piccoli, poi, si è assistito negli ultimi anni a un aumento della prevalenza di asma, un’insorgenza associata proprio alla contaminazione ambientale, in particolare ai fumi di combustione dei motori e al fumo passivo di tabacco.
La relatrice si è soffermata quindi sugli effetti a breve e lungo termine, con l’aumento delle malattie respiratorie e cardiovascolari e la ridotta aspettativa di vita, e sull’aumento del rischio di morbilità e mortalità per diverse patologie importanti: dall’ischemia al diabete, dall’infarto al cancro.
«Venezia – ha sottolineato la dottoressa Murgia – è messa male, come Cremona. Non c’è qui una qualità dell’aria che ci rassicura: abbiamo bisogno di aria più pulita e di ridurre l’inquinamento del 79%. In Veneto è inquinato tutto: i terreni, l’acqua, l’aria… E questi elementi parlano tra loro, si incontrano: non possiamo aspettare il 2030 per fare cose concrete».
Puntare sulle energie rinnovabili, migliorare le aziende e i siti di rifiuti urbani, ridurre i sistemi di agricoltura contaminanti, costruire città più verdi e potenziare i trasporti pubblici tra le soluzioni individuate dall’OMS sotto lo slogan “Clean air for health”.
«Come medici – ha concluso la relatrice – dovremmo concentrarci su questo: gli effetti dell’inquinamento atmosferico, per tutti gli esiti sanitari considerati, diminuiscono con il diminuire della concentrazione media degli inquinanti. Ognuno deve fare la propria parte».

Capire, di fronte a tutte queste problematiche, che cosa possano fare medici e operatori sanitari, l’obiettivo della discussione finale del convegno, coordinata da Maurizio Scassola con la partecipazione di Paolo Regini, Vitalia Murgia e della pediatra Lucia Magagnato di ISDE Venezia. «Dobbiamo parlare di tutto questo – ha sottolineato proprio quest’ultima – con i nostri pazienti, sensibilizzare la popolazione. Dobbiamo far capir loro che la volontà di cambiamento parte dalle persone: i genitori sono preoccupati per il futuro dei figli, ma non fanno il salto di attivarsi in prima persona. Hanno una specie di rassegnazione...».
Medici e operatori sanitari devono metterci la faccia, secondo la dottoressa Murgia, cercare in ambulatorio di capire quando una persona sta male se il contesto ambientale in cui vive può incidere, ma anche uscire dai loro studi medici, dando esempi positivi.
«Dobbiamo cominciare – ha aggiunto il vicepresidente dell’Ordine Scassola – dai nostri luoghi di lavoro, dai nostri studi e ambulatori. Cominciamo a capire come sono le nostre sale d’attesa… Accoglienti, pulite, colorate, areate? La consapevolezza sui temi ambientali è fondamentale: cominciamo dalla nostra vita personale, familiare e professionale. Spegniamo qualche candela in casa».
I medici devono diventare parte attiva nella difesa dell’ambiente, la posizione ribadita da Paolo Regini, e hanno bisogno di più formazione sul tema. «Dobbiamo – ha concluso appellandosi ai colleghi – scendere in campo. Vincenzo Cordiano è un esempio: è un medico che si è accorto di qualcosa e ha avuto la coscienza e il coraggio di intervenire ed esporsi. Questo viene richiesto alla nostra professione». Questo, proprio grazie alla nuova sinergia con ISDE, cercheranno di fare in futuro anche l’Ordine e la Fondazione Ars Medica.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia