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Bimbi e ragazzi passano la maggior parte del loro tempo libero incollati ai dispositivi digitali, i più grandi sempre connessi. Tra i 10 e i 16 anni quasi tutti usano lo smartphone, oltre il 90%, e ne hanno uno di personale in età sempre più bassa, molti a meno di 9 anni. Nella maggior parte dei casi, poi, i genitori non li controllano perché “si fidano”. E allora per far crescere figli più consapevoli e sani nel loro rapporto con la tecnologia è agli adulti che bisogna parlare, educandoli a dare il buon esempio.
È questo il messaggio più forte emerso dal convegno Adolescenza e devices: una vita nel web, organizzato lo scorso 4 marzo all’auditorium Cesare De Michelis del Museo M9 di Mestre dall’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Venezia e dalla sua Fondazione Ars Medica, sotto la guida scientifica del presidente dell’Ars Gabriele Gasparini.
Un’occasione di confronto tra camici bianchi e società – insegnanti, psicologi, psicoterapeuti ed esperti delle forze dell’Ordine e delle dipendenze – per prendere coscienza di questo nuovo stile di vita e trovare insieme azioni efficaci di prevenzione affinché non sfoci nelle derive della dipendenza.
«La Francia – ha spiegato il presidente dell’OMCeO veneziano e vice nazionale Giovanni Leoni accogliendo i partecipanti – sta portando avanti un percorso per vietare l’uso dei social sotto i 15 anni: è un segno del tempo, di una tecnologia ormai sempre più pervasiva. Ma, come diceva un presidente molto amato, Sandro Pertini, i giovani non hanno bisogno di grandi sermoni, ma di buoni esempi. Le giovani generazioni ci guardano. Noi siamo cresciuti col Risiko e i giochi di società che ci riunivano attorno a un tavolo per divertirci e capire qualcosa della vita. Ora dobbiamo capire cosa guardano loro, i nostri figli, e che derive li aspettano».

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I saluti delle autorità
Un tema attuale e importante da approfondire come hanno sottolineato anche i sostenitori del convegno, dalla FNOMCeO al Comune di Venezia, alle due aziende sanitarie. «Da quando internet è entrato nelle nostre vite 24 anni fa – ha detto Giovanni Carretta, direttore sanitario dell’Ulss 3 Serenissima, portando i saluti del direttore generale Edgardo Contato – sono cambiati completamente il modo di relazionarsi, di vivere, di gestire le informazioni e la conoscenza. L’impatto che ha avuto è stato di per sé devastante sotto il profilo degli equilibri. Con il Covid, poi, tutto ha subito un’accelerazione mostruosa: i nostri figli, gli adolescenti si sono ritrovati all’improvviso privati completamente della possibilità di relazione se non attraverso il digitale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il drammatico aumento delle terapie psichiatriche, i tentativi di suicidio, l’autolesionismo… Allora, fare un approfondimento su questi temi è qualcosa di intelligente, di appropriato e di dovuto».
A portare i saluti di Mauro Filippi, direttore generale dell’Ulss 4 Veneto Orientale, è stato, invece, il direttore del Serd Diego Saccon, anche ospite della tavola rotonda finale. «È importante – ha detto – sviluppare e sostenere l’integrazione dei servizi territoriali tra le due aziende sanitarie, in particolare sul fronte della salute mentale. Quest’area deve avere una sinergia perché ci sono nella zona metropolitana problemi comuni: promuovere il confronto e la collaborazione è indispensabile».
«Un patrocinio, si sa, non si nega a nessuno – ha svelato l’assessore comunale alla Coesione sociale Simone Venturini – ma su questo argomento la Giunta si è fermata a discutere più di un’ora. Una cosa mai successa. Gli adolescenti subiscono i danni maggiori, ma in realtà il tema riguarda tutti noi. Alla festa del Redentore, per fare un esempio, nessuno ormai guarda più i fuochi, tutti guardano lo schermo dello smartphone: non siamo più capaci di goderci il momento». E se gli adulti possono in realtà cercare di autolimitarsi, per adolescenti e bambini è più difficile. «È una sfida – ha concluso l’assessore – per tutta la comunità educante, oggi più fragile e frammentata di 20 anni fa. Le famiglie sono sempre più sole, le parrocchie e il mondo sportivo fanno sempre più fatica ad entrare nel mondo dei ragazzi, anche la scuola si trova in difficoltà. Dobbiamo coinvolgere i ragazzi nelle reti fisiche, in presenza, a discapito di quelle virtuali, che spesso mostrano una realtà falsata e distorta, che induce loro a non accettarsi».

Un questionario per 1.300 ragazzi
Il contesto per l’analisi degli esperti è stato tracciato dalla giornalista Chiara Semenzato che ha illustrato i risultati di un questionario che Ordine e Fondazione hanno proposto agli studenti delle scuole veneziane tra i mesi di novembre 2022 e gennaio 2023, a cui hanno risposto 1.291 ragazzi e ragazze tra i 10 e i 16 anni di una ventina di istituti, medie e superiori, dell’ampio territorio provinciale. Questi i dati più significativi:

  • i ragazzi cominciano ad usare e ad avere uno smartphone personale in età sempre più bassa: la maggioranza lo riceve tra i 10 e gli 11 anni, ma quasi un 12% molto prima, dai 6 ai 9 anni. Oltre il 77% dei partecipanti ha cominciato a usare il cellulare prima degli 11 anni e quasi il 60% ne aveva uno tutto suo;
  • i ragazzi passano buona parte del loro tempo libero incollati a smartphone, tablet o smart tv: quasi il 51% dalle 3 alle 5 ore al giorno, quasi il 15% dalle 6 alle 8, oltre il 6% dalle 9 alle 14 ore. In sostanza 1 su 5 usa i dispositivi più di 6 ore al giorno e tra gli over 15, di fatto, 1 su 2 è sempre connesso;
  • se la maggioranza dei partecipanti dice di divertirsi con i dispositivi, quasi altrettanti, il 36,5%, dichiara di “non provare nulla”. E se il 43% si dice indifferente in caso venissero loro tolti, più del 39% avrebbe invece reazioni negative di rabbia o di tristezza;
  • per lo più, quasi il 60%, i genitori controllano sempre o qualche volta come i figli usano i dispositivi, ma quasi il 37% risponde che “no, non controllano, perché si fidano”;
  • i ragazzi sono poco consapevoli delle possibili trappole sul web: il 13,5% di loro ha a che fare in rete con persone che non conosce o di cui conosce solo il profilo e oltre il il 37% dichiara di avere avuto a che fare, in modo diretto o attraverso l’esperienza di amici, con situazioni sgradevoli o potenzialmente pericolose. In sostanza 1 su 3 è già incappato in contesti poco piacevoli.

(Clicca qui per leggere il report completo dei risultati: https://www.omceovenezia.it/notizie/notizie/news/12290-adolescenti-e-web-tutti-i-risultati-del-questionario-rivolto-agli-studenti-veneziani).

Gli esperti
Un convegno, questo su adolescenti e dispositivi tecnologici, che è la naturale estensione di una giornata di studi dedicata al fenomeno del vamping, dal titolo Svegli la notte, già organizzata da Ordine e Fondazione nel settembre 2021.
«Questa giornata – ha sottolineato aprendo i lavori Gabriele Gasparini – non parla ai ragazzi, è dedicata in realtà a medici, odontoiatri, insegnanti, psicologi, genitori, alla società. Gli esperti hanno già capito che, scrollando il cellulare, cerchiamo qualcosa che ci appaga con un movimento ripetitivo. Cosa che può portare dipendenza».
La tecnologia, però, altro non è che un’elevata capacità di calcolo, «eppure – ha aggiunto citando il filosofo Luciano Floridi – dobbiamo chiederci come la tecnologia ci trasforma». Si parla di una nuova rivoluzione in corso, l’infosfera globale, in cui l’iperconnettività dissolve i limiti tra reale e virtuale. «E allora – ha concluso il dottor Gasparini – servono regole per vivere questa nuova dimensione. Bisogna farsi delle domande che molte persone non si fanno. Oggi noi siamo qui proprio per farci queste domande, per decidere se cambiare un po’ la realtà o subire passivamente questo trend non proprio salutare».

Il primo rischio che corrono i ragazzi, ma anche agli adulti a dire il vero, è l’insorgere di nuove patologie come la FOMO (Fear Of Missing Out), cioè la paura essere disconnessi, tema approfondito dalla pediatra torinese Emanuela Malorgio, esperta in disturbi del sonno. «Questi argomenti – ha esordito – ci toccano da vicino perché riguardano il nostro presente e il nostro futuro. È importante ragionare e trovare soluzioni insieme. Ma se pensiamo di risolvere il problema vietando l’utilizzo, secondo me sbagliamo. Perché l’età dell’adolescenza è l’età della trasgressione e dobbiamo lasciargliela: è un modo per crescere. Dobbiamo lavorare su un altro versante: quello dell’educazione e della prevenzione. Educare non soltanto il ragazzo, ma soprattutto la sua famiglia».
La pediatra ha cominciato, dunque, ad analizzare questa nuova patologia che si sta diffondendo, la FOMO – la paura di essere disconnessi, cioè di essere estromessi e perdere un’occasione gratificante, la preoccupazione di perdere qualcosa che gli altri vivono e noi no – spiegando innanzitutto quando si è diffusa, a partire dal 2000, come la sua evoluzione sia legata strettamente alla diffusione dei social network e sottolineando come «ogni volta che il tuo telefono suona o lo controlli per vedere un testo, un mi piace o un messaggio, il tuo cervello ti premia con una dose di dopamina».
I social, insomma, da un lato modificano comportamenti e azioni della nostra vita quotidiana, dall’altro «creano e incrementano la dipendenza – ha spiegato la dottoressa Malorgio – picchiettiamo, digitiamo e facciamo scorrere i nostri smartphone più di 2.600 volte al giorno: davanti ai nostri bambini, durante le riunioni, mentre mangiamo e mentre dovremmo dormire… Bisogna educare i genitori a cambiare il proprio modo di usare questi sistemi».
Comportamenti che possono avere un grande impatto sulla salute perché riducono la capacità di attenzione e possono sfociare in derive psicopatologiche, dall’assenza di tolleranza all’isolamento, dall’ansia e dalla depressione ai sintomi dell’astinenza, dall’autolesionismo al bullismo, dalla pornografia ai disturbi del sonno.
Qualcosa, però, si può già fare, a partire dalle 4 mura domestiche:

  • rimuovere tutti i media elettronici dalle camere da letto dei bambini;
  • non usare mai il cellulare durante i pasti, da quelli al seno o al biberon a quelli a tavola;
  • non usare i devices per addormentare i bambini, meglio leggere con loro un bel libro;
  • non dare o far usare un dispositivo ai bimbi prima dei 5 anni;
  • usare giochi colorati e piacevoli, leggere libri di carta per intrattenere i più piccoli, soprattutto prima dei tre anni.

«Dobbiamo smettere – ha concluso la dottoressa Malorgio – di far finta che il problema non esista. Anche noi pediatri possiamo fare molto: diventare custodi digitali dei genitori, dando loro gocce di educazione affinché riescano a cambiare i loro comportamenti, usando il digitale in modo corretto. Rieduchiamoci, insomma, per educare».

Fondamentale per capire i numerosi rischi che corrono i ragazzi sul web l’intervento di Letterio Saverio Costa, direttore tecnico capo dei Centri Operativi per la Sicurezza Cibernetica (C.O.S.C.) della Polizia Postale Veneto. «Perché – ha esordito – uno che si occupa di repressione dei reati è qui a parlare di devianze nell’adolescenza? Non vi suona strano? Dovrebbe… Siamo qui perché ci siamo resi contro che manca l’educazione alla base. Manca quella minima condizione per cui un genitore o un adolescente è in grado di non incappare in reati». A partire, solo per fare un esempio, dagli incidenti stradali causati da persone che mandano o ricevono messaggi vocali, ultima frontiera della follia.
All’insegna della prevenzione, dunque, la relazione delle forze dell’Ordine, desiderose innanzitutto di parlare ai genitori. Tra i temi più importanti approfonditi la perdita di pudore dei ragazzi e la mancanza di limiti, che alimentano la pedopornografia, facendo sì che oggi siano gli stessi adolescenti ad offrirsi agli adescatori. «Non possiamo più pensare – ha sottolineato il dottor Costa – che internet sia la baby sitter dei nostri figli. Mi angoscia vedere bimbi in culla che gestiscono tablet. Stiamo crescendo una generazione di bambini che trovano normale qualsiasi cosa, tipo approcciarsi con un adulto e allora bisogna partire a educare dall’asilo. Forse anche prima».
L’intimità deve restare dei ragazzi: non va mai fotografata, filmata e postata altrimenti se ne perde il possesso, ci si espone a un rischio anche non condividendo il materiale, o si possono, in futuro, perdere occasioni di lavoro e relazioni importanti. «Una volta – ha aggiunto – che un video pedopornografico viene diffuso, purtroppo la vita di questi ragazzi cambia. Prima che arrivino all’adolescenza dobbiamo educare i figli all’idea che l’intimità deve essere solo loro e a notare ciò che non va bene».
Dopo aver auspicato un contatto più stretto tra scuola, famiglia e forze dell’Ordine e parlato dell’alibi morale del controllo, con cui i genitori giustificano lo smartphone dato ai figli, il poliziotto ha sottolineato l’importanza delle regole «che vanno date – ha concluso il dottor Costa – perché non c’è confine tra reale e virtuale: quello che faccio on line ha la stessa valenza di quello che faccio ogni giorno. Anzi on line è tutto amplificato. Bisogna fermarsi un attimo: prima di condividere, commentare, cliccare pensiamoci 3 secondi».

Ad aprire la seconda sessione del convegno è stata la moderatrice Martina Musto, vicepresidente della Fondazione Ars Medica, che ha subito lasciato la parola al medico e psicoterapeuta Marco Ballico, anche consigliere e coordinatore del Comitato Scientifico dell’Ars, per approfondire il tema del dialogo generazionale tra genitori e figli attraverso i dispositivi.
Ballico ha richiamato un documento importante, già citato dalla dottoressa Malorgio, e pubblicato dal Senato nel giugno 2021, «un documento – ha sottolineato – che non ha avuto la diffusione e la conoscenza che doveva avere, nonostante proponga una grandissima riflessione culturale. C’è scritto, ad esempio, che “non c’è alcuna prova scientifica sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento, anzi tutte le ricerche dimostrano il contrario: più la scuola e lo studio si digitalizzano più calano sia le competenze degli studenti, sia i loro redditi futuri”».
Lo psicoterapeuta si è soffermato sulla parola, strumento vero delle relazioni, che si sta perdendo a favore delle immagini, con un vocabolario che si impoverisce sempre di più. «Il 90% della popolazione – ha spiegato – usa 2mila lessemi: i nostri figli viaggiano e quando impareranno 2mila parole di ogni lingua saranno poliglotti, ma come riusciranno ad esprimersi, a rappresentare ciò che hanno nella testa?».
Il dottor Ballico si è soffermato, poi:

  • sugli analfabeti funzionali, sempre di più in Italia, e sull’analfabetismo di ritorno, cioè perdere o dimenticare competenze acquisite;
  • sulle ragioni che spingono a pensare sia una battaglia persa, quella con i dispositivi: dall’uso sempre più intenso da parte dei genitori all’acquisto sempre più precoce dello smartphone per i bambini, dalla necessità del controllo sugli adolescenti a un rapporto scuola-famiglia ormai deteriorato;
  • sul concetto di famiglia, ormai molto diverso da qualche decennio fa;
  • sull’idea che ormai infanzia e adolescenza non siano più due età in continuità, con un adultizzarsi dei bambini e un infantilizzarsi degli adolescenti;
  • sulle aree di espressione del disagio degli adolescenti.

«Molti oggi – ha aggiunto lo psicoterapeuta – sono figli unici, quindi cercati, voluti, con aspettative enormi. Ma le mamme lavorano e allora l’educazione viene delegata fuori della famiglia, perché “il bambino va stimolato” e non gli va preclusa alcuna esperienza. Gli adolescenti, poi, sono stati cresciuti evitando loro l’esperienza della paura e del senso di colpa». Non c’è quindi da stupirsi che questa età della vita si prolunghi ormai fino a oltre i 40 anni.
Adultizzare il ragazzo, dunque, «significa – ha concluso il dottor Ballico – evitargli gli inganni e il controllo, chiarire la differenza tra protezione e tutela, insegnare a tollerare il dolore, instaurare con lui una relazione autentica ed evitare di sedurlo con una finta relazione paritaria. Bisogna vivere con i ragazzi, aiutarli, sostenerli, entusiasmarli, farli lavorare su un progetto: solo così ti seguiranno».

E tra gli adulti che possono avere un impatto importante su ragazzi e adolescenti ci sono, ovviamente, anche gli insegnanti. Una di loro, la professoressa Maria Serena, docente dell’istituto tecnico Da Collo di Conegliano, ha proposto a 51 colleghi, di ruolo e con un’elevata anzianità di servizio, un questionario per capire se e come sono cambiati gli studenti dopo tre anni di pandemia.
«Più del 40% degli insegnanti – ha spiegato – ritiene che gli studenti oggi facciano molta più fatica a stare attenti rispetto a 3 anni fa. La stessa percentuale, poi, pensa che i ragazzi fatichino a capire i concetti delle discipline e addirittura il 90% ritiene che non riescano a rielaborarli da soli».
Secondo l’opinione dei professori, sono aumentati i comportamenti scorretti degli studenti, che ad esempio si assentano troppo spesso e per motivi futili in caso di verifiche o interrogazioni, e «la resistenza alle frustrazioni – ha aggiunto – appare fragile: chi più chi meno, tutti tendono a scoraggiarsi di fronte alle difficoltà, evitando le sfide più impegnative. Rispetto a 3 anni fa ben il 72,5% degli insegnanti ritiene che i propri studenti siano più fragili e più insicuri».
Ragazzi, dunque, poco sereni, che manifestano spesso disagi emotivi, che sui banchi di scuola si trascinano una stanchezza importante e il cui uso dei dispositivi con la pandemia è drasticamente aumentato, influenzandoli negativamente. «Oggi – ha concluso Maria Serena – dobbiamo fare molta attenzione all’uso che gli adolescenti fanno dei dispositivi. Una questione che ci deve interrogare come insegnanti, come genitori e come educatori».

Uso responsabile dei dispositivi: un vademecum
L’azione più diretta, insomma, la devono fare gli adulti e, in particolare, i genitori «perché sono loro i primi ad essere presi ad esempio dai ragazzi. Ed è inutile togliere ai figli lo smartphone se poi siamo noi i primi ad averlo sempre in mano» hanno spiegato l’angiologo Roberto Parisi e la pediatra Angela Barachino, componenti dell’Ars Medica, che stanno mettendo a punto un vademecum per l’educazione a un uso consapevole dei devices da distribuire a breve negli ambulatori medici e nelle scuole.
Innanzitutto è fondamentale capire che l’utilizzo dei dispositivi deve cambiare a seconda dell’età del bambino perché le differenze evolutive sono importanti. «Nella prima e nella seconda infanzia, cioè nei primi 5 anni di vita – ha sottolineato il dottor Parisi – l’esposizione ai media e alle tecnologie digitali dei piccoli sembra essere direttamente correlata all’uso che ne fanno i genitori. E sebbene possa apparentemente rappresentare un piccolo e innocuo aiuto nel “tenere buono” il figlio, l’uso eccessivo ha effetti negativi importanti sullo sviluppo emotivo e psicosociale dei più piccoli».
In realtà è già tanto quello che si può fare:

  • non dare per nessuno motivo un touchscreen a un bimbo con meno di 2 anni di età;
  • usare internet e i social lontani dagli occhi dei bambini di meno di 6 mesi, guardandolo, ad esempio, quando lo si allatta;
  • cogliere i messaggi che nasconde il pianto di un bimbo;
  • tra i 2 e i 5 anni non superare un’ora di esposizione al giorno, tra i 5 e gli 8 dedicare meno di due ore al giorno, in età preadolescenziale e adolescenziale limitarne l’uso alle 3 ore al giorno;
  • mai usare i dispositivi durante i pasti e vietare l’accesso a internet in autonomia;
  • creare alternative per i più piccoli: correre con loro, disegnare, raccontare una storia o leggere un libro, suonare, fare le costruzioni;
  • installare nei dispositivi dei figli app di protezione;
  • spegnere lo smartphone degli adolescenti un’ora prima di andare a letto e non lasciarlo in camera con loro.

«Dobbiamo dare ai nostri ragazzi – ha concluso la dottoressa Barachino – degli strumenti per analizzare criticamente i contenuti sul web e limitare il tempo che passano davanti agli schermi favorendo invece attività di gruppo, sport, uscite nella natura perché aumentano la loro autostima, il loro benessere e anche le competenze relazionali e la sensibilità. Facciamo loro scoprire il mondo reale».

Esperti a confronto nella tavola rotonda
L’ultima parte della mattinata di studi è stata dedicata al confronto tra gli esperti, con una tavola rotonda dal titolo Parliamone! guidata dalla giornalista dell’Ordine Chiara Semenzato e a cui hanno partecipato l’insegnante Alessandra Masiero, docente al Liceo Majorana di Mirano, Elisabetta Baioni e Diego Saccon, rispettivamente direttore della Neuropsichiatria infantile e del Serd dell’Ulss 4 Veneto Orientale e Silvia Faggian, psicologa del Serd dell’Ulss 3 Serenissima.
Tra i temi affrontati: il ruolo che devono giocare gli adulti, i campanelli d’allarme a cui devono prestare attenzione, la possibilità concreta che alcuni atteggiamenti possano sfociare in una dipendenza, le azioni pratiche che, facendo rete, si possono mettere in campo, le domande che medici di famiglia, pediatri e odontoiatri possono fare per intercettare in modo precoce il fenomeno.
Questi gli spunti emersi:

  • fortunatamente ci sono ancora ragazzi che si salvano da tutto questo. Il problema vero però sono le regole: molti di loro non le hanno più, per loro non esistono (Alessandra Masiero);
  • ci sono grandi fragilità da parte dei ragazzi e incapacità di gestire gli insuccessi, anche piccoli, che li spingono alla disperazione (Alessandra Masiero);
  • nei servizi incontriamo sempre più ragazzi estremamente fragili: non hanno un’identità e un senso di sé sufficientemente forti, oscillano tra un’illusoria onnipotenza e i crolli che si traducono in comportamenti complessi. Gli attacchi di panico e l’autolesionismo sono sempre più diffusi tra gli adolescenti: manca la capacità di elaborare sentimenti e affetti e di collegare sforzo e risultato (Elisabetta Baioni);
  • i dati del territorio sull’uso di internet, devices e gaming cominciano a essere consistenti: siamo in una fase intermedia ma ci aspettiamo arrivi un’onda. Questi strumenti possono diventare dipendenza perché la dipendenza è insita nella struttura stessa dello strumento. I meccanismi sono gli stessi: la possibilità, ad esempio, di scrollare le immagini senza uno stop, di ricavarne una sorpresa, un appagamento che tengono agganciati al dispositivo (Silvia Faggian);
  • di fronte a questi problemi dobbiamo porci un quesito: è possibile che i devices digitali inducano alla psicopatologia, ma i sintomi che stiamo vedendo possono essere in realtà legati ad altri tipi di difficoltà? (Diego Saccon);
  • nelle diverse epoche la sofferenza psichica tende a prendere, almeno in parte, la via che è predisposta dalla moda del momento (Diego Saccon);
  • una cosa importante da fare è sensibilizzare le famiglie, su cui la scuola oggi ha scarso appeal. Bisogna mettere insieme tutte le figure legate all’educazione (Alessandra Masiero);
  • i pediatri sono una rete attiva perché riescono a mantenere a lungo il rapporto di fiducia, c’è invece una difficoltà rispetto al rapporto tra medici di famiglia e adolescenti perché i ragazzi stanno tendenzialmente bene, non vanno dal medico ed è difficile per i medici individuare dei segnali (Elisabetta Baioni);
  • quando c’è la compromissione della vita quotidiana siamo già in una condizione di gravità. Ma questo malessere è solo la punta di un iceberg: forse il ragazzo aveva già qualche difficoltà che poteva essere colta prima (Silvia Faggian);
  • l’importanza della performance: siamo molto attenti a rilevare se il nostro bambino non è un genio che ha tutti 8, mentre sottovalutiamo il fatto che il nostro bambino non ha alcun compagno con cui giocare e tende a isolarsi (Silvia Faggian);
  • dobbiamo trovare delle forme di integrazione dei vari attori e dei vari servizi in campo: bisogna ricomporre i saperi, rimettere insieme i pezzi (Diego Saccon).

Non c’è dubbio, insomma, che se nel rapporto con la tecnologia sui ragazzi bisogna intervenire precocemente, il lavoro più importante da fare è però sugli adulti. «Oggi parlando dei ragazzi – ha sottolineato il vicepresidente dell’Ordine Maurizio Scassola – abbiamo parlato molto di noi stessi, dei problemi nel relazionarci con loro e di quelli che abbiamo con i dispositivi. Come professionisti abbiamo delle sofferenze che ci accomunano, quindi dobbiamo cercare più occasioni di incontro. Dobbiamo confrontarci, condividere, essere sensibili e responsabili per riuscire a incidere su modelli che sembrano intoccabili e su cui non possiamo rassegnarci».
«Dobbiamo partire – ha concluso il presidente Leoni – dall’educazione della coppia, già durante la gravidanza. Perché sarà la famiglia poi ad avere l’educazione primaria dei figli. Dobbiamo insegnare ai ragazzi lo spirito critico, far loro capire la differenza tra bene e male: se i genitori non sono virtuosi non lo saranno neanche i figli».
Esempio, consapevolezza, regole, sinergia, rete: alcune delle parole chiave emerse durante il convegno per affrontare un fenomeno destinato, purtroppo, ad aumentare e arginare le possibili devianze.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia