Una distinzione, quella tra ospedale e territorio, che non ha più senso di esistere. Un modello organizzativo che per le imminenti Case della Comunità al momento ancora non esiste davvero, anche se dovranno essere tutte pronte e attive entro l’estate 2026. E poi la sfida delle sfide: trovare il personale sanitario che andrà ad “abitare” le nuove strutture.
Sul futuro delle cure primarie ci si è interrogati nell’edizione 2024 di Venezia in Salute, la manifestazione – quest’anno intitolata Camici & Mattoni, la rivoluzione delle Case della Comunità – organizzata dall’Ordine, con la sua Fondazione Ars Medica, lo scorso 21 settembre, e articolata in due diversi momenti: la mattina nell’auditorium del Museo M il convegno scientifico dedicato a tutti i professionisti della sanità; il pomeriggio, il tradizionale incontro, per la prima volta in Piazza Ferretto a Mestre, tra i cittadini e le realtà della Città Metropolitana che si occupano di salute, vero cuore pulsante dell’evento.
Centinaia le persone che, complice una calda e bellissima giornata di sole, hanno fatto visita ai 18 stand, tra test per i riflessi o per la memoria, controlli della glicemia, dimostrazioni pratiche per disostruire le vie aeree dei bimbi, consigli per adottare stili di vita sani. Con un unico obiettivo: spiegare ai cittadini che devono essere proprio loro i primi a prendersi cura della propria salute.
«Abbiamo scelto questo tema – ha sottolineato Giovanni Leoni, presidente dell’OMCeO veneziano e vicepresidente FNOMCeO, aprendo la giornata – dopo un’ampia discussione. E lo abbiamo scelto perché è di grande attualità in tutte le sue declinazioni. Oggi vogliamo toglierci qualche dubbio e qualche perplessità».
In sala per un saluto anche gli assessori comunali alla Programmazione Sanitaria Simone Venturini e al Patrimonio Paola Mar che hanno entrambi ringraziato l’Ordine a nome dell’intera città per l’organizzazione di Venezia in Salute. «Gli investimenti in sanità – ha aggiunto Venturini – rischiano di essere inutili se non si accompagnano a un cambio di contenuti e di approccio anche dell’intera comunità. Proprio a VIS ci avete insegnato che la salute non è delegabile solo al medico: le persone vanno responsabilizzate e la comunità deve fare il suo».
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La definizione del contesto
Tre le sessioni in cui si è articolato l’approfondimento scientifico: la prima, moderata dalla pediatra Angela Barachino e dall’assistente sociale Nicoletta Codato, dedicata a inquadrare il contesto in cui si inseriranno le nuove Case della Comunità, strategiche nel PNRR insieme agli Ospedali della Comunità per la riorganizzazione delle cure territoriali. Una riforma non più derogabile.
«Noi siamo qui – ha esordito il presidente dell’Ars Medica Gabriele Gasparini – perché, come medici, come professionisti e soprattutto come cittadini, abbiamo bisogno che queste strutture funzionino». La salute, infatti, non è un bene individuale, ma una risorsa della comunità. «Oggi non ha più senso – ha aggiunto – dividere ospedale e territorio: ci vuole integrazione. Le professioni d’aiuto hanno lo stesso obiettivo: non sono due cattedrali separate».
Una situazione problematica, quella che vive la sanità pubblica, con una frammentazione della presa in carico e dell’assistenza al paziente, un limitato accesso giornaliero ai servizi, una popolazione sempre più anziana e polipatologica e un ricorso sempre più smodato al pronto soccorso, dove però il 54% delle prestazioni in Veneto è da codice bianco, cioè non urgente.
«Poi non stupiamoci – ha spiegato il dottor Gasparini – se in corsia ci aggrediscono… Una diversa organizzazione sul territorio, però, può migliorare l’integrazione con l’ospedale: le Case della Comunità potrebbero dare una risposta coordinata e continua ai bisogni dei cittadini». Da qui l’analisi di come saranno organizzate le nuove strutture, divise in hub – una ogni 40-50mila abitanti – e spoke, con una presenza di personale medico e infermieristico tra le 12 e le 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, con gli ambulatori specialistici e i servizi diagnostici di base.
«La Casa della Comunità – ha concluso il dottor Gasparini – sarà una struttura sociosanitaria polivalente per l’assistenza primaria, la prevenzione e la promozione della salute. Diventerà un punto di riferimento continuativo per la popolazione. Perché queste strutture funzionino, però, dobbiamo imparare queste parole chiave: squadra, strumenti tecnologici, informazione, comunicazione e telemedicina. Questa è una sfida che può cambiare la realtà sanitaria del nostro Paese».
Al presidente Giovanni Leoni, poi, il compito di spiegare come quella del medico sia una professione in continua evoluzione. «I medici – ha detto – sono tanti, di tipo diverso, con requisiti diversi, ma l’adattamento, lo spirito di sacrificio, la passione per i casi difficili e le relazioni umane sono una base comune della professione. ».
A cambiare, e non poco, la professione medica negli ultimi decenni, l’innovazione tecnologica: dalla sanità digitale, con il Fascicolo Sanitario Elettronico che finalmente prende vita, all’uso dell’intelligenza artificiale. Un’era elettronica, però, che se da una parte ha ridotto il tempo necessario per ottenere i risultati di analisi ed esami, dall’altra non ha aumentato il tempo trascorso con i pazienti.
«La richiesta di salute – ha aggiunto il presidente Leoni – è in aumento: i cittadini sono affamati di esami. La tecnologia è un supporto, ma non può essere disgiunta da un lavoro di squadra: un’altra base della professione è un gruppo di persone che ha sviluppato una particolare sensibilità nei confronti della sofferenza degli altri».
L’importanza di integrare i medici di famiglia nella rete dei servizi sul territorio, lo sviluppo delle visite a domicilio per i soggetti fragili, i dati sulla professione che vira al femminile, la drammatica carenza di specialisti in emergenza e urgenza, le dimissioni inattese dei camici bianchi dagli ospedali pubblici tra gli altri temi affrontati.
Infine, sulle Case della Comunità: «Come saranno popolate? – si è chiesto il dottor Leoni – C’è una postilla: sarà tutto a costo zero perché in realtà si sposta l’attività da un posto all’altro. Io, però, sono un po’ preoccupato. Forse il Veneto darà anche una risposta adeguata, ma temo che nel resto d’Italia ci possano essere grossi problemi».
La riorganizzazione dell’assistenza territoriale, con un un focus particolare sulle criticità legate alla distribuzione delle nuove Case della Comunità in Veneto, al centro dell’analisi di Maurizio Scassola, vicepresidente dell’Ordine, qui anche nel suo ruolo di segretario regionale di FIMMG Veneto, e di Andrea Favaretto, direttore del Centro Studi Sintesi della CGIA di Mestre. Una relazione a due voci nata da uno studio ad hoc sul tema realizzato insieme dal sindacato e dagli analisti.
Alla base un’idea fondante: la riforma delle cure primarie deve necessariamente passare per una riorganizzazione degli ambulatori dei medici di famiglia già esistenti sul territorio, in un percorso che va dal basso all’alto, partendo dalle esigenze del territorio e dal singolo medico di Medicina Generale ancora costretto a lavorare da solo e senza supporto di personale per passare poi alle medicine di gruppo, alle medicine di gruppo integrate, alle Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) e approdare infine alle Case della Comunità spoke e hub. «Queste nuove strutture – ha sottolineato il dottor Scassola – sono una soluzione solo se riempiamo di contenuti la periferia. Alle Case della Comunità devono arrivare solo i problemi complessi, devono essere la finalizzazione di un percorso di assistenza e di cura».
Le mappe realizzate mostrano chiaramente come la distribuzione delle Case della Comunità sul territorio regionale lasci ampie aree scoperte: il bellunese, l’alto vicentino e veronese, l’area del rodigino, le isole della laguna. L’unico indicatore considerato per tracciare le nuove strutture in Veneto è stato la densità di popolazione: una Casa della Comunità ogni 40-50mila abitanti. I criteri, invece, presi in esame nelle mappe della CGIA sono anche altri: provincia per provincia la densità di popolazione, le previsioni sull’andamento demografico, l’indice di vecchiaia, i dati sulle patologie croniche e soprattutto i tempi medi di percorrenza, a traffico normale, che i cittadini impiegherebbero per arrivare alle nuove strutture, in molti casi ben al di sopra dei 30 o 45 minuti.
«Stiamo cercando di risolvere un problema – ha detto il dottor Favaretto – lasciato da parte per moltissimi anni: non c’è stata programmazione né nazionale, né regionale, né territoriale. Ora dobbiamo cambiare paradigma per raggiungere gli obiettivi dettati dalla Costituzione: equità e uguaglianza, accessibilità, universalità delle cure».
Non solo i medici di famiglia, tanti anche i pediatri che lavorano da soli, circa il 70%. A spiegare il lavoro sul territorio di queste figure professionali il dottor Andrea Schiavon, consigliere provinciale della FIMP, che ha subito messo in chiaro: «Nel corso degli anni le Case della Comunità sono state chiamate in vario modo, ma hanno avuto sempre le stesse caratteristiche: utili e affascinanti in teoria, ma nella pratica pediatrica molto difficili da realizzare, quasi impossibili».
Compiti del pediatra: garantire le cure dei più piccoli attraverso al prevenzione – dalle vaccinazioni ai bilanci di salute, dal neurosviluppo alle problematiche dell’adolescenza – e le cure primarie, cioè l’assistenza per le patologie acute e per i pazienti cronici.
Partire dai bisogni reali dei bambini è, secondo i pediatri, una delle chiavi per affrontare la discussione sul nuovo tipo di assistenza. «Le Case della Comunità – ha aggiunto il relatore – sono difficilmente perseguibili nel mondo pediatrico perché il progetto non si inserisce nelle consuete modalità di erogazione dell’assistenza pediatrica e perché non risponde in questo momento né ai bisogni, né agli obiettivi della popolazione infantile».
Ci sono le illusioni – migliorare gli istituti già in essere attraverso, ad esempio, un fondo economico dedicato o l’aumento del numero di pediatrie di gruppo – e c’è un sogno: una casa del bambino, in cui il pediatra, con personale di supporto, è collegato al SISP, alla neuropsichiatria infantile e all’unità operativa cure primarie. «Ma i sogni, si sa – ha concluso il dottor Schiavon – talora aiutano a risolvere i problemi».
Ultimo tassello per definire il contesto il ruolo degli specialisti ambulatoriali all’interno delle Case della Comunità, analizzato da Pio Attanasi, segretario organizzativo nazionale del SUMAI, che all’inizio del suo intervento ha precisato: «Per garantire la presa in carico dei pazienti cronici e di quelli complessi con pluripatologie, è necessario superare la visione individualista dei professionisti. La vera rivoluzione sarà l’équipe territoriale».
Dopo aver passato in rassegna le normative sulla materia che prevedono già il ruolo determinante degli specialisti ambulatoriali nel nuovo assetto, il decreto 77 del 2022 ad esempio,il relatore ha spiegato come «con questa nuova visione lo specialista che lavora in équipe diventa un arricchimento e potrebbe diventare, per i casi cronici, anche un riferimento per gestire il paziente sul territorio. Un paziente che non deve girare a vuoto, deve essere accompagnato dall’équipe che lo guida passo passo. Non si può più lavorare da soli: lavorare in rete sarà la vera rivoluzione».
Lo stato dell’arte sul territorio
All’interno del quadro generale tracciato si muovono le istituzioni locali. Ma quanto di ciò che contengono normative e PNRR è già realtà sul territorio? Si è cercato di capirlo nella seconda parte del convegno, moderata dal medico di famiglia Enrico Peterle e dall’angiologo Roberto Parisi, che si è aperta con gli intenti della Regione, illustrati da Patrizia Bonesso, della direzione Risorse Umane del Servizio Sanitario Regionale Veneto.
Guardando ai dati demografici, con una popolazione sempre più anziana e fragile, e alle scarse risorse disponibili, che sul lungo periodo diminuiscono in relazione al PIL, la relatrice ha sottolineato come «si debba cambiare il setting di assistenza perché cambiano la popolazione e le esigenze di salute», come l’ospedale «non possa rispondere a queste nuove esigenze» e come «la sfida sia la presa in carico della cronicità».
E se le risorse non aumenteranno «il livello di erogazione a cui eravamo abituati – ha aggiunto – forse va riconsiderato. Bisogna chiarire i criteri di accesso alle cure, cosa offrire in determinati contesti. Universalità non vuol dire tutto a tutti, vuol dire tutto a chi ha bisogno di quella determinata prestazione».
Ma mettere ordine sul territorio è una sfida complessa che trova nelle Case e negli Ospedali della Comunità uno snodo di passaggio. «Non si possono vedere da soli – ha spiegato la dottoressa Bonesso – ma vanno inseriti nel complesso degli interventi di riorganizzazione. Gli standard minimi per il personale dovranno essere declinati sulla base delle esigenze dei singoli territori». Tema, questo, che ha poi approfondito illustrando gli obiettivi delle nuove strutture, le finalità, le opportunità, i rischi, i processi da misurare e, se possibile, anche da cambiare. «Questa riforma, però – ha concluso – ci chiede di guardare alla riorganizzazione partendo dalle esigenze del cittadino».
Da completare e rendere operative entro l’estate 2026 – praticamente domani – le Case della Comunità cominciano a diventare realtà anche nell’area veneziana. Una è già stata inaugurata, nell’agosto scorso, a San Michele al Tagliamento. Le strutture di Noale e Lido sono in dirittura d’arrivo.
Come ha spiegato Mauro Filippi, direttore generale dell’Ulss 4 Veneto Orientale, la sua azienda ha a disposizione per gli interventi sul territorio 31 milioni di euro: sono previste 5 Case della Comunità finanziate dal PNRR e una che sarà messa a punto con risorse proprie:
- a Cavallino Treporti in un edificio totalmente nuovo;
- a Jesolo nell’area ospedaliera;
- a Caorle, ampliando il distretto già esistente;
- a San Michele al Tagliamento, nell’area più lontana del territorio, dove portare i servizi;
- a San Donà di Piave, con il raddoppio dei volumi dell’attuale distretto sanitario;
- • a Portogruaro nel distretto sociosanitario.
«Abbiamo scelto di intervenire – ha spiegato – per lo più in strutture dove siamo già operativi. Ci saranno muri nuovi, operatori vicini e tecnologia adeguata per la diagnostica. Questo però non significa chiudere tutto il resto, anzi».
Le Case della Comunità, dunque, non saranno per forza un punto erogativo, «ma spazi in cui – ha concluso il dottor Filippi – si gestiranno in particolare i pazienti cronici e fragili. Saranno luoghi in cui la persona troverà una risposta, una presa in carico, la definizione di un percorso. E per i professionisti sanitari saranno una grande opportunità per dialogare e confrontarsi».
Saranno, invece, 12 le Case della Comunità che sorgeranno nell’area dell’Ulss 3 Serenissima per un costo totale di oltre 34 milioni di euro: 7 saranno finanziate dal PNRR, 5 da fondi propri o regionali. Quelle più vicine a essere presto operative sono a Favaro, Noale e Lido, mentre a Mestre, Marghera e Mira, dove gli interventi sono più consistenti, i cantieri sono già partiti. Tempi più lunghi, infine, per le strutture di Dolo, Marcon, Cavarzere, Chioggia, Martellago e Venezia centro storico.
«Le Case della Comunità – ha sottolineato Giovanni Carretta, direttore sanitario della Serenissima – potrebbero davvero rilanciare la sanità pubblica. Vanno viste come un’opportunità, seppur difficilissima, che richiede nuovi modelli organizzativi». Non vanno, insomma, pensate come qualcosa di più, che si affianca a quanto già c’è e che comporta risorse aggiuntive.
«Nel nostro territorio – ha spiegato Mauro Zulian, direttore del Distretto 1 Venezia Centro Storico – molte sedi distrettuali hanno già i parametri richiesti dal PNRR: ciò che manca è la parte dell’assistenza sulle 24 ore. Ma siamo a buon punto». Le nuove strutture, dunque, saranno un punto unico d’accesso con varie figure professionali «per dare al cittadino – ha concluso – risposte di tipo diverso e prendere in carico il paziente in modo globale, senza farlo rimbalzare da un posto all’altro».
Chi “abiterà” le nuove Case della Comunità
L’ultima parte del convegno, moderata dall’odontoiatra Gabriele Crivellenti e dal medico di Pronto Soccorso Farhadullah Khan, ha visto protagonisti gli attori chiamati nell’immediato futuro ad abitare le nuove Case della Comunità: infermieri, tecnici sanitari, psicologi e rappresentanti del terzo settore.
La prima esperienza presentata da Amalia Fontanel, consigliera di OPI Venezia, e dalle colleghe Elisa Marinello e Silvia Donà, è quella dell’infermiere di famiglia, figura attiva già da 3 anni nel centro storico di Venezia e destinata a diventare infermiere di comunità. «Un’assistenza di prossimità – ha sottolineato la prima relatrice – in particolare per i pazienti che hanno ancora una cronicità semplice. Tra gli obiettivi: ritardare l’evoluzione della patologia o delle sue complicanze, l’autogestione della malattia e il mantenimento dell’autonomia».
Una figura professionale che lavora in stretta sinergia con il medico di famiglia e gli specialisti ospedalieri e il cui operato va adattato al contesto territoriale e sociale in cui si inserisce il servizio. «Siamo partiti dal centro storico di Venezia – ha spiegato la dottoressa Marinello – perché in quel distretto c’è un alto numero di pazienti cronici e anziani e perché non ci sono medicine di gruppo integrate». Qualche dato: sono 12 gli infermieri di famiglia attivi, suddivisi per sestieri, 790 i pazienti attuali, ma 1.337 quelli assistiti dal 2021 a oggi, 200 le prese in carico dall’inizio dell’anno e quasi 5.500 le visite di cui solo 145 ambulatoriali.
«Per questo servizio – ha concluso la dottoressa Donà – è fondamentale l’approccio proattivo: da un lato anticipare un bisogno prima che si manifesti, dall’altro la gestione partecipativa dell’utente sia nei confronti della propria patologia, sia verso le realtà e le associazioni presenti nel suo territorio. Perché per salute intendiamo tutta la sfera della persona».
Altri sicuri protagonisti delle future Case della Comunità, dotate della strumentazione diagnostica di base, saranno i tecnici sanitari – dai dietisti agli igienisti dentali, dagli educatori professionali ai tecnici ortopedici... – delle 19 professioni che afferiscono all’Ordine TSRM PSTRP, al convegno rappresentato da Andrea Maschera, presidente dell’area di Venezia e Padova.
«Se finora – ha chiarito subito – si è parlato della difficoltà di trovare personale, beh, queste figure sono in numero estremamente esiguo, quasi da WWF: nelle nostre province per alcune aree abbiamo solo 30-40 professionisti, molti dei quali neanche inseriti nella sanità pubblica».
Gli aspetti da cui partire per inserire con successo i tecnici nelle Case della Comunità sono: un terreno professionale sanitario già incline al cambiamento; un bagaglio di competenze consolidato; una tecnologia sempre più presente e “pesante” che ha reso i professionisti sempre più ultra specializzati «a volte incapaci – ha aggiunto – di passare da aree affini». Tra gli aspetti, invece, da evitare: creare strutture parallele agli ospedali, produrre esami e test ridondanti, scordare l’etica per perseguire i risultati dei test.
Dal presidente Maschera, infine, 4 esempi di come queste figure professionali possono essere spese nell’ambito territoriale: la radiologia convenzionale a distanza, il logopedista e il dietista nei team di comunità, la telemedicina e il ruolo del tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare. «Da sola – ha concluso – la tecnica non fa salute, può essere anche un boomerang: bisogna metterla nel binario giusto. Noi non pensiamo a una Casa della Comunità in cui siano presenti tutte le nostre 19 professioni, ma dove ci siano équipes modulabili sulla base dei bisogni del territorio».
«Quella che ci aspetta – l’esordio di Luca Pezzullo, presidente dell’Ordine degli Psicologi Veneto – è una sfida importante. Ma è altrettanto chiaro che non se ne esce da soli: va trovata una soluzione di sistema. Per noi la sfida è anche integrare la psicologia nella sfera territoriale».
Il presidente ha, quindi, sottolineato come, dal Covid in poi, stiano drammaticamente aumentando i bisogni dal punto di vista psicologico, psico-sociale e psico-fisico, «tanto che – ha aggiunto – i nostri studi sono sempre pieni e abbiamo difficoltà a gestire la domanda». Sul fronte del bonus psicologo, tanto per fare un esempio, con risorse disponibili per un massimo di 38-40mila cittadini, sono arrivate 400mila domande: mezzo milione di italiani che, non avendo trovato altre risposte sul territorio, hanno chiesto aiuto allo Stato per andare dal privato.
La risposta univoca, insomma, ha fatto il suo tempo. «Nessuna capacità di cura – ha spiegato il dottor Pezzullo – salva da sola, serve una squadra. Bisogna pensare a soluzioni integrate: la signora anziana sola, poco autosufficiente, di Santo Stefano di Cadore ha problemi fisici, di riabilitazione, psicologici che solo una rete può gestire». Quattro, allora, le carte da giocare: risorse umane «qualificate e soddisfatte», mura efficienti, una tecnologia all’altezza, e soprattutto «un modello organizzativo nuovo ed efficace».
Creare sinergie tra i professionisti della salute e tra loro e i cittadini è anche l’obiettivo dichiarato di Cittadinanzattiva, rappresentata al convegno di Venezia in Salute dal delegato regionale Lorenzo Mattia Signori, che ha sottolineato come «le Case della Comunità saranno più rare proprio lì dove la popolazione, seppur numericamente minore, è più anziana, più cronica, più fragile. Ma per questi pazienti dobbiamo trovare soluzioni nello spirito dell’equità delle cure».
Dall’alta spesa per le prestazioni private alla comunicazione come tempo di cura, dalla recente éscalation di aggressioni in corsia a una ritrovata relazione di fiducia tra medico e paziente, tanti i temi sollevati da Signori. «Cerchiamo – ha concluso il relatore – di formare i cittadini ad approcciarsi nel modo giusto alla sanità: spesso non sanno neanche leggere correttamente un’impegnativa... Ma anche il cittadino chiede al Servizio Sanitario coerenza. Serve la collaborazione di tutti affinché le Case della Comunità funzionino: noi siamo disponibili a supportare tutte le scelte, a creare con voi principi portanti. Dobbiamo camminare insieme per farci ascoltare dal mondo politico».
Altra esperienza di volontariato importante per il territorio veneziano è quella di AVAPO, assistenza a domicilio ai pazienti oncologici, le cui tante e diverse attività – assistenza ospedaliera, nel day hospital oncologico di Venezia e Mestre (3.250 le ore dedicati dai volontari nel 2023), nell’hospice al Fatebenefratelli (1.100 ore), nell’ambulatorio di senologia (550 ore), assistenza domiciliare (800 ore), ricerca e nucleo delle cure palliative – sono state illustrate dalla presidente della sezione lagunare Teresa Badi Guarinoni.
«Quando – ha spiegato – un paziente viene preso in carico da noi, l’ospedale va a casa del paziente, dove si fa tutto, dalle ecografie più semplici alle trasfusioni. Non prendiamo in carico solo malati terminali, ma anche chi ha bisogno di terapie di supporto». Dalla consegne dei farmaci al ritiro dei presidi sanitari al supporto psicologico per chi assiste i malati, sono tante le declinazioni di questo servizio.
Alla fine anche una riflessione sulle future Case della Comunità. «Saranno sicuramente utili – ha concluso la presidente Badi Guarinoni – ma sarà difficile reperire personale ed avranno costi alti. Tra le criticità che speriamo possano essere risolte a breve: i tempi di ricovero sempre più stretti, che costringono i familiari ad ardui e a volte impossibili compiti. O ancora l’inadeguatezza dei servizi sociali e la mancanza di informazione. Noi volontari cerchiamo di essere quell’anello di congiunzione tra i pazienti e i servizi assistenziali esistenti, ma tutto questo non basta. Servono scelte e investimenti consapevoli e adeguati».
A chiudere il convegno, per tirare un po’ le somme, è stata una tavola rotonda, condotta dalla giornalista dell’Ordine Chiara Semenzato, a cui hanno partecipato Simona Sforzin, direttore dei Servizi Socio Sanitari dell’Ulss 4 Veneto Orientale, Marco Ballico, medico e psicoterapeuta nonché coordinatore della Fondazione Ars Medica, e Giuseppe Palmisano, medico di famiglia e segretario di FIMMG Venezia.
La dottoressa Sforzin ha focalizzato l’attenzione sul tema della responsabilità dei cittadini ad avere loro stessi per primi cura della loro salute. Precisando che «oggi di modelli organizzativi veri per le Case della Comunità, trasversali ed applicabili a tutte le strutture, non ne abbiamo» e come non si possa parlare di rivoluzione «perché la rivoluzione la fanno le persone con le barricate. Le Case della Comunità invece sono un’opportunità che ci è stata concessa, sono calate dall’alto» ha anche aggiunto come possano essere una grande occasione «per lavorare insieme alle altre professioni sanitarie e alla comunità sulla responsabilizzazione dei cittadini ai corretti stili di vita, alle vaccinazioni, agli screening, all’aderenza terapeutica, all’autocura, a tutto ciò che finora difficilmente siamo riusciti ad applicare in modo efficace sui nostri territori».
Tra gli altri temi sollevati dalla dottoressa Sforzin: l’iniquità di accesso alle cure e il ricorso al privato, la necessità di spendere bene le risorse che ci sono e di profilare i bisogni delle persone, le tante domande inappropriate e le tante esigenze non espresse. «Credo che – ha concluso – dentro le Case della Comunità si possano costruire modelli organizzativi per mettere insieme diversi professionisti, con degli obiettivi comuni e percorsi semplici. Questo sarebbe già un risultato».
Il dottor Palmisano, invece, si è soffermato sulla capillarità e la prossimità, che sono e devono restare la vera forza della Medicina Generale. L’obiettivo, allora, per i medici di famiglia è cogliere l’opportunità della trasformazione offerta dalle Case della Comunità «per riorganizzare anche le nostre forze sul territorio, per valorizzare tutti gli ambulatori già presenti. Ma affinché possano rimanere in vita e dare un servizio più soddisfacente, è necessario dar loro ossigeno. Che per noi significa essere affiancati da infermieri e personale di segreteria che ci aiutino e ci sollevino dalle troppe mansioni che negli ultimi anni ci hanno messo in difficoltà».
Per arrivare a questo risultato un passaggio fondamentale è potenziare le AFT, aggregazioni funzionali territoriali, già presenti all’interno delle aziende sanitarie e che permettono ai medici di famiglia di dialogare di più tra loro organizzandosi in rete. «In quest’ottica – ha concluso il dottor Palmisano – le Case della Comunità dovranno essere dedicate alle persone più fragili, polipatologiche, che assumono tanti farmaci, difficili talvolta da gestire a domicilio, le più bisognose di attenzione e di cure».
La differenza tra società e comunità e una riflessione sul ricovero i temi, invece, approfonditi dal dottor Marco Ballico. Se la società è un costrutto senza un luogo fisico, la comunità invece è «qualcosa di più spirituale: un insieme di persone che fanno parte di un gruppo definito e che si mettono insieme per uno stesso ideale o un progetto condiviso. La Comunità ha uno spazio di riferimento e attraverso quello si riconosce». Le Case della Comunità, allora, diventano un luogo di aggregazione, in cui la solidarietà si respira, in cui non si cerca solo di erogare servizi, «ma dove accogliere alcuni bisogni che fanno fatica ad essere affrontati».
E tra questi bisogni emergenti c’è il ricovero, ormai sempre più breve, il cui significato deve cambiare in “occasionale momento di aiuto”. «Gli ospedali oggi – ha detto il medico – sono diventati luoghi di raffinata cura ad altissima tecnologia per dare velocemente una risposta specialistica. Purtroppo, però, quando il malato arriva a casa, spesso non ha risolto tutto il problema». E allora la Casa della Comunità «potrebbe diventare quell’occasione di riparo, di protezione e di riabilitazione, una sorta di appendice della propria casa, per gestire queste situazioni». Il rischio da non correre, però, è quello di mini ospedalizzare il paziente, separandolo dalla sua famiglia e dal suo territorio. «Servono modelli alternativi – ha concluso il dottor Ballico – più vicini alla vita delle persone».
«Con questo incontro – ha concluso Marina Bottacin, presidente di OPI Venezia – qualche dubbio è stato dissipato, molti altri sono sorti. Si è acceso però un bel dibattito che spero si possa continuare anche con i cittadini».
Opportunità, sfida, nuovi modelli organizzativi, confronto, dialogo, sinergia, rete e squadra i concetti che potranno riempire i mattoni delle Case della Comunità, su cui c’è tantissimo ancora da fare e, purtroppo, in pochissimo tempo. Più che una rivoluzione, dunque, un’occasione da non perdere, un’opportunità, una vera e propria sfida per rilanciare l’assistenza sul territorio e rispondere così alle reali esigenze di salute dei cittadini.
Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia