Fare il punto di quanto succede assai spesso anche nel territorio veneziano e promuovere la prevenzione: questi gli obiettivi strategici del convegno La violenza verso gli operatori sanitari: il contesto territoriale. Prevenire la violenza, proteggere la salute di chi cura, organizzato per l’OMCeO veneziano lo scorso 22 novembre al Best Western Hotel Park Continental di San Donà di Piave dal vicepresidente Cristiano Samueli e da Giorgia Tezzot, medico di famiglia e fiduciaria di FIMMG Venezia per il territorio dell’Ulss 4 Veneto Orientale.
Un momento di incontro che ha unito la categoria mettendo insieme, per scambiarsi esperienze e riflettere su un fenomeno in crescita, dirigenti sanitari e professionisti di diverse specialità, tutti, chi più chi meno, coinvolti in corsia o negli ambulatori in episodi di aggressione più o meno gravi: medici del pronto soccorso, medici di famiglia, psichiatri, colleghi del Servizio Dipendenze, guardie mediche, odontoiatri e radiologi.
Guarda qui i volti dei protagonisti
Un fenomeno in crescita
Un fenomeno in crescita, le aggressioni in sanità, e a dirlo sono anche i dati locali, come sottolineato dal direttore generale dell’Ulss 4 Veneto Orientale Mauro Filippi che ha parlato di un incremento negli ultimi anni del 38-40% degli episodi di violenza, registrato anche nella sua azienda sanitaria dove tra il 2019 e il 2023 si è passati da poche decine di casi a 130 segnalazioni.
Grazie, però, alle azioni efficaci di prevenzione e contrasto messe in campo – la formazione agli operatori, innanzitutto, per saper gestire gli eventi prima che si trasformino in violenza, ma anche il monitoraggio dei punti deboli del sistema, le sale d’attesa ad esempio, l’aiuto dei nuovi dispositivi tecnologici, dai braccialetti alle bodycam, la videosorveglianza, i protocolli con le forze dell’ordine – si sono fatti molti passi avanti e il trend potrebbe invertirsi. «Tanto è vero – ha aggiunto – che nel 2024 e quest’anno abbiamo notato una riduzione importante dei fenomeni aggressivi, che sono stati poco più di un centinaio. Le aggressioni fisiche si sono praticamente dimezzate e sono per fortuna la minima parte».
Un fenomeno, però, secondo il direttore generale che non va sottovalutato e le cui responsabilità sono da attribuire anche a un certo modo di fare politica «che utilizza la sanità come terreno di scontro – ha concluso – e questo inasprisce i cittadini», atteggiamento che rischia di vanificare il lavoro per ricostruire il rapporto di fiducia tra paziente e operatore sanitario, fondamentale per il percorso di cura.
A sottolineare la complessità dell’ambiente in cui si muovono gli operatori sanitari anche Fabio Graceffa, direttore del presidio ospedaliero di Venezia, in rappresentanza dell’Ulss 3 Serenissima. «Parlare di violenza – ha detto – non è qualcosa di astratto, è parlare di un’attività lavorativa, un ambiente reso particolarmente complesso dalle persone con cui ci si confronta, con le loro fragilità, le loro paure, i loro dubbi. Dubbi e fragilità che spesso portano tensioni che poi si trasformano in violenza».
Necessario, allora, confrontarsi sul tema, approfondirlo, «scambiarsi idee, storie, impressioni – ha concluso – per contribuire in qualche modo a combattere questa violenza e quel malessere che sempre più spesso si avverte tra i colleghi. Per crescere dobbiamo porci degli interrogativi, cercare soluzioni o almeno di mitigare un problema sempre più diffuso e sempre più grave».
A delineare i primi contorni del fenomeno il medico di famiglia e vicepresidente dell’Ordine Cristiano Samueli, ideatore del convegno, che ha subito presentato un’immagine suggestiva: una mano che si tende verso una persona fragile, «la mano di un infermiere o di un medico che però sempre più spesso viene schiaffeggiata, colpita, piegata. Questa è una vera e propria ferita di civiltà: essere insultati, minacciati o aggrediti fisicamente non fa parte del lavoro di chi cura e di chi salva le vite».
Numeri e cifre, però, parlano chiaro e definiscono una situazione critica: secondo i più recenti dati dell’INAIL (aprile 2024) si registrano 2-3mila infortuni l’anno da aggressioni o violenze sul posto di lavoro, uno su 10 in sanità. L’Osservatorio Nazionale sulla sicurezza dei professionisti sanitari e socio-sanitari indica per il 2024 oltre 18mila aggressioni a livello nazionale con 22mila operatori coinvolti.
«Ma – ha precisato il dottor Samueli – c’è un dato che fa ancora più male: oltre il 60% delle vittime è donna. Infermiere, dottoresse, operatrici che pagano il prezzo più alto, spesso vittime di una rabbia cieca che esplode nei luoghi che dovrebbero essere santuari di sicurezza». E non sta andando meglio neanche nel 2025.
Il Veneto, poi, non è affatto un’isola felice, dato che si colloca tra i territori con il maggior numero di denunce: nei primi 10 mesi del 2024 sono stati segnalati nella nostra regione più di 1.800 episodi di violenza, l’80% dentro le mura degli ospedali, il 20% sul territorio.
«Se chi deve curare – ha detto il medico di famiglia – ha paura la qualità della cura peggiora. Un medico terrorizzato lavora peggio, un infermiere che teme per la propria incolumità vive in uno stato di stress costante, che porta molti professionisti a dimettersi o a fuggire dal servizio pubblico».
Se la rabbia per una lista d’attesa lunga è comprensibile, se la preoccupazione per un parente che sta male è legittima, «scaricare questa frustrazione – ha concluso il dottor Samueli – sull’operatore sanitario è un atto vile e controproducente. Quella persona è l’ultimo anello di una catena complessa ed è l’unica che in quel momento può aiutarci. Aggredire un sanitario significa aggredire noi stessi e rompere quel patto di fiducia che è alla base della salute pubblica».
La violenza in corsia: cosa si sta facendo
Nella prima parte del convegno, moderato da Simona Sforzin, direttrice dei Servizi sociosanitari dell’Ulss 4 Veneto Orientale e dal medico legale Cristina Mazzarolo, coordinatrice della Commissione Pari Opportunità (CPO) dell’Ordine, si è cercato di tracciare un contesto di riferimento: cosa si sta facendo per arginare il fenomeno delle aggressioni al personale sanitario.
Primo a prendere la parola il presidente Giovanni Leoni, nella sua veste di vice nazionale, che ha tracciato il percorso seguito dalla FNOMCeO a partire dal 2018 per portare il tema agli onori delle cronache: prima la denuncia sistematica di ogni episodio di violenza, attraverso la diffusione di comunicati stampa, poi la richiesta di avere un interlocutore politico per cambiare le leggi, infine una diversa formazione sul tema e la convocazione di tavoli di consultazione con i sindacati, i più vicini ai professionisti.
Deterrenza la parola chiave: la FNOMCeO moltiplica così le proprie attività studiando proposte per la videosorveglianza – non solo cartelli ben visibili, ma anche pulsanti rossi come nelle banche, collegamenti con le guardia giurate, fischietti e bodycam – facendo visita ai colleghi vittime di violenza, avviando contatti con i ministri, organizzando campagne stampa anche attraverso i social. «L’aggressore – ha spiegato il dottor Leoni – deve avere la percezione di essere identificato e punito in caso compia un atto violento».
E anche l’attenzione della politica si accende. «Su questo tema – ha concluso – siamo stati molto pressanti. Non abbiamo fatto tutto da soli: c’è stata un’azione corale con i sindacati e altre forze sociali. Alla fine sono nati provvedimenti con pene più severe e, il più importante, l’arresto in flagranza di reato, che può essere differito fino a 48 ore».
Ad approfondire il contesto legale, facendo il punto su uno dei provvedimenti citati dal presidente Leoni, la legge 137 del primo ottobre 2024, è stato invece un magistrato: il pubblico ministero della Procura di Venezia Giovanni Zorzi.
Da un punto di vista legislativo qualcosa comincia a cambiare a partire dal 2020, con la legge 113, che interviene sotto il profilo penale, inasprendo le pene. In sostanza «tutti i reati – ha spiegato il giurista – diventano più gravi se commessi nei confronti di un esercente le professioni sanitarie». A stretto giro viene anche introdotto il reato specifico di lesioni personali gravi o gravissime cagionate al personale sanitario (articolo 583 quater del Codice Penale). «Innovazioni importanti – la riflessione del magistrato – però, certo, non particolarmente tutelanti per i sanitari».
Si arriva al cuore della questione nel 2024 decidendo di intervenire sulla procedura penale per avere davvero un impatto nella vita dei professionisti della salute. «Il portato innovativo della legge 137 – ha sottolineato il dottor Zorzi – è la possibilità dell’arresto in flagranza e quella dell’arresto in flagranza differita Cioè la possibilità di arrestare il soggetto anche dopo, anche quando se n’è andato dalla struttura sanitaria, se è stato ripreso dai sistemi tecnologici o comunque individuato in maniera precisa. E questo sì che è un presidio più efficace».
Il problema, semmai, è avere le forze dell’ordine vicine e non a chilometri di distanza, in modo che l’intervento sia immediato: da qui la necessità di avvicinare i presidi di sicurezza alle strutture sanitarie. «Questo secondo me – la sua riflessione conclusiva – è uno degli strumenti più efficaci di contenimento della violenza nei confronti dei sanitari. Sapere che vicino o comunque raggiungibile ci sono gli agenti, rassicura tutti quanti, molto di più di una telecamera». Protezione da assicurare anche, in qualche modo, ai medici di famiglia «perché purtroppo il medico più debole è il medico solo».
Da una specialità all’altra: la violenza in sanità
Entrando nell’ambito delle diverse specialità, il primo tipo di violenza analizzata è quella subita negli ambulatori di Medicina Generale con la relazione di Giorgia Tezzot, medico di famiglia e fiduciaria di FIMMG Venezia per il territorio dell’Ulss 4 Veneto Orientale.
Partendo dai dati riguardanti la nostra regione – 3mila aggressioni all’anno, 1.864 nei primi 9 mesi del 2024, cioè circa 7 casi al giorno – la relatrice ha spiegato come neanche i medici di famiglia, purtroppo, siano esenti da forme di violenza. Dato che statistiche di letteratura non ce ne sono, la dottoressa Tezzot ha organizzato un sondaggio a livello locale, a cui hanno risposto 65 medici di base, per cercare di capire, quantificare e definire i tipi di violenza nel territorio specifico, identificare le caratteristiche dell’aggressore, valutare l’impatto psicofisico sulle vittime e proporre eventuali strategie di prevenzione.
Interessanti i risultati:
- il 58,5% ha riferito di aver subito addirittura più di due episodi di violenza, soprattutto nell’ultimo biennio;
- la violenza più diffusa, 86,6% dei casi, è quella verbale;
- l’aggressore tipo è nel 75% dei casi un uomo e nel 56,6% dei casi con un’età compresa tra i 51 e i 70 anni;
- nel 71,2% dei casi è stato lo stesso paziente ad aggredire il medico;
- nel 62,3% dei casi non c’era alcuna patologia psichiatrica o abuso di sostanze nell’aggressore;
- nel 54,7% dei casi il collega ha ricusato il paziente, nel 22,6% non ha fatto nulla, mentre nel 16% ha cercato un chiarimento con l’aggressore;
- solo il 7,5% ha sporto denuncia contro l’aggressore.
Tra le strategie possibili per prevenire i fenomeni di violenza, quasi il 60% degli intervistati ritiene importanti le campagne di sensibilizzazione e oltre il 52% sottolinea la necessità dei corsi di formazione per capire come gestire questi fenomeni, ma ben il 62,5% ritiene poco efficace nella pratica la legge 137 e si sente comunque poco tutelato.
«I medici di Medicina Generale – conclude la dottoressa Tezzot – ritengono ormai l’aggressione verbale come una routine della propria attività lavorativa. Ci troviamo spesso a combattere per le prescrizioni, i tempi sono sempre più ridotti, si fa fatica a spiegare ai pazienti che tante cose non possono essere richieste. Tutto questo è frustrante». Un fenomeno per cui servono, dunque, risposte sempre più articolate che integrino misure legislative, strumenti operativi e rafforzamento del rapporto di fiducia medico-paziente.
La formazione, dunque, appare fondamentale per riuscire a gestire l’aggressività di pazienti e familiari: tema approfondito dagli specialisti Anna Urbani, Giovanna Dal Ferro e Diego Saccon, rispettivamente direttrice e psichiatra della UOC di Psichiatria e direttore del SerD dell’Ulss 4 Veneto Orientale.
Gli esperti hanno sintetizzato i concetti cardine della prevenzione, partendo dalla definizione di aggressività, una tendenza istintiva che «causa – hanno spiegato – comportamenti caratterizzati da minacce d’attacco provocati da situazioni conflittuali o da frustrazione».
Prima fase del ciclo dell’aggressività, il trigger, cioè il fattore scatenante – «uno o anche più stimoli che il violento percepisce come avversativi, veri o presunti che siano» – che può essere legato a caratteristiche individuali dell’aggressore o al contesto, cioè a un clima percepito di tensione. «Noi operatori – hanno sottolineato gli psichiatri – dobbiamo renderci conto che la persona di fronte a noi sta provando un fastidio, dobbiamo riconoscerlo e, per quanto possibile, tentare di eliminarlo. Nulla di facile, ma questa è l’indicazione».
Fase successiva l’escalation, che può essere più o meno breve, più o meno veloce e improvvisa, «con una mimica molto più attiva, gestualità molto più accesa, iniziano ad esserci le minacce… Noi allora – il consiglio dei relatori – dobbiamo usare il cervello e non fare da specchio alle offese, ma piuttosto fermarci e giocarla sul piano comunicativo, tentando di instaurare un dialogo semplice, diretto e specifico con chi ci sta di fronte». La tecnica della de-escalation è l’ultimo intervento possibile per scongiurare la violenza.
Al di là del piano fisico, i danni più consistenti per un operatore aggredito sono sotto il profilo psicologico e non coinvolgono solo la vittima, ma tutta la squadra di lavoro in cui è inserita: sentimenti negativi di impotenza, colpa, rabbia, frustrazione che, se non trattati nel modo giusto, possono sfociare in veri e propri quadri psicopatologici.
Condizioni ambientali e scarsità di tempo, dunque, sono tra i fattori scatenanti della violenza, ma a contare sono anche le capacità individuali, «che però – come hanno sottolineato gli psichiatri – possono essere coltivate e formate». Da qui le iniziative formative dell’Ulss 4 Veneto Orientale destinate ai reparti più a rischio e un protocollo che mette insieme pronto soccorso, servizio psichiatrico, SerD e rianimazione, per gestire le acuzie nei casi di disturbi correlati alle sostanze. «Non sappiamo ancora – hanno concluso – se effettivamente funzioni, lo stiamo testando, ma la risposta ci pare soddisfacente. La cosa più importante, però, è lo sforzo di mettere assieme unità operative diverse in un lavoro multidisciplinare».
Altro ambiente particolarmente esposto alla violenza è quello della Continuità Assistenziale (CA), le ex guardie mediche, quei colleghi che sostituiscono il medico di famiglia di notte e nei festivi. A descriverne la dimensione Andrea De Stales, rappresentante del settore per la FIMMG Venezia, che si è subito soffermato sulle situazioni potenzialmente a rischio. Tra le criticità:
- un contatto con il paziente senza filtro preliminare, non sempre lineare e con scarsa conoscenza reciproca;
- strumenti limitati a disposizione;
- utenti che suonano alla porta a qualsiasi ora del giorno della notte e pretendono una visita immediata;
- richieste inappropriate da parte dei pazienti per un servizio che dovrebbe erogare solo prestazioni non differibili, ma anche di prescrizioni e certificazioni incongrue;
- medici che lavorano sempre più spesso soli con bacini d’utenza sempre più ampi.
«Il quadro più critico – ha spiegato il dottor De Stales – è quando un giovane medico, spesso specializzando, magari anche donna, si trova in una sede singola e non può soddisfare le aspettative del paziente». Molto a rischio anche le visite domiciliari «in cui il medico – ha aggiunto – va da solo a casa di un paziente che non conosce. La visita può essere notturna e sostanzialmente nessuno ha traccia di dove vada il medico e di cosa possa succedere».
Di dati ufficiali anche in questo ambito ce ne sono pochi, qualcuno, però, lo ha presentato il dottor De Stales attingendo a una ricerca condotta dalla FIMMG che ha intervistato 2.458 medici di CA: ad andare per la maggiore episodi di violenza fisica, quasi un quarto dei casi, e intimidazioni, avvenuti per lo più nella sede di lavoro. Ben il 30% delle vittime non ha sporto denuncia.
Tra le criticità più spiccate per i medici di CA la localizzazione delle sedi troppo spesso isolate, senza altri presidi intorno, senza altro personale di turno e con enormi carenze rispetto a sistemi di allarme e di videosorveglianza, inferriate alle finestre, porte blindate e vie di fuga. «Un contatto diretto con il 113 non c’è – ha aggiunto il medico – e non è detto, se esco in visita, che ci sia il tempo o il modo di chiamare per dire che qualcosa non va. Se esco in domiciliare e non torno, nessuno se ne accorge fino al mattino successivo».
Quattro, allora, le azioni da mettere in campo secondo il dottor De Stales: sanare le carenze strutturali organizzative delle sedi di CA, incentivare l’offerta formativa per riconoscere le situazioni a rischio e sulle tecniche di de-escalation, dare la possibilità al medico di CA di accedere ai dati clinici del paziente e, infine, l’educazione sanitaria della popolazione per un corretto accesso al servizio.
La violenza in corsia e negli ambulatori non è solo un rischio per l’integrità fisica e psicologica dei lavoratori, ma è anche un rischio organizzativo e sistemico che compromette la qualità dell’assistenza, la sicurezza dei pazienti e il clima nelle strutture sanitarie. Questa la riflessione portata al convegno da Antonella Tonetto, primario della Pediatria dell’Ospedale di Portogruaro, che ha sottolineato come la situazione sia diversa nel suo ambito di competenza dato che i pazienti hanno da 0 a 16 anni e sono sempre accompagnati e assistiti dai loro genitori: la violenza più probabile, allora, arriva da parte dei caregiver.
«Noi pediatri – ha sottolineato – abbiamo imparato delle tecniche di comunicazione per entrare in relazione con il mondo dei nostri pazienti e capire i loro sintomi e il loro stato d’animo. Investiamo molto su questo e lo stesso facciamo con i genitori che vorremmo idealmente avere come alleati nella cura dei loro figli. L’umanizzazione delle cure in ambito pediatrico è una necessità».
Se da un lato è meno problematico anche il fronte del paziente pediatrico in pronto soccorso, dato che ci sono percorsi dedicati per evitare ai più piccoli le lunghe attese, dall’altro i genitori tendono a sottovalutare l’importanza del pediatra di libera scelta, figura invece fondamentale per la cura dei bambini, a cui si rivolgono spesso con atteggiamenti di sufficienza.
Chiedendosi con amarezza come si è passati dai medici eroi del tempi del Covid «a essere l’ultimo anello di un sistema sanitario in crisi e a essere trasformati in nemici da una società sempre più sfiduciata», la dottoressa Tonetto ha individuato tra le azioni di prevenzione da mettere in campo anche un maggior rispetto tra colleghi e un cambio di narrazione sulla sanità «che valorizzi – ha spiegato – le esperienze positive e l’eccellenza del sistema, contrastando un’immagine distorta e negativa che spesso viene diffusa perché fa titolo. Serve una narrazione che rimetta al centro il nostro indispensabile contributo alla società: siamo un esercito di persone molto fedeli che sta combattendo per la salute pubblica».
Il pronto soccorso, lo ribadiscono le statistiche e i fatti di cronaca, è tra le aree a maggior rischio di violenza. A raccontare cosa succede in questo reparto è stata Angela Beltrame, direttrice dell’emergenza-urgenza dell’Ospedale di San Donà di Piave, che ha spiegato subito come il reparto che dirige sia un fattore di rischio semplicemente «perché ci passa un sacco di gente: pazienti, familiari, doppi familiari, tripli familiari… Gente ignorante nel senso che ignora quello che fa un pronto soccorso, non ne ha la più pallida idea».
Difficile, però, ammette la dottoressa Beltrame, mettersi nei panni di un cittadino che arriva al pronto soccorso e «per lui quello è il big day negativo. Gli succede una cosa brutta, improvvisa, importantissima, che stimola tutti i suoi recettori neuronali, per lui è tutto nuovo, difficile, ansiogeno. E trova noi che siamo lì in una giornata come tutte le altre, che magari vorremmo solo prendere un caffè. Una situazione dissonante».
Per evitare l’escalation di tensione, allora, indispensabile ridurre gli accessi all'emergenza-urgenza e tenere sotto controllo il tempo che passa. «Passano i minuti – ha raccontato la relatrice – passano le ore e poi le persone esplodono. Dobbiamo controllare il tempo di attesa dei pazienti, ridurlo, far entrare almeno il familiare. Quanto più il tempo d’attesa è breve, tanto meno succedono cose problematiche».
Tra le soluzioni già attivate dall’Ulss 4 Veneto Orientale l’utilizzo delle bodycam, su base volontaria, molto gradita dal personale «che ha la percezione – ha concluso la relatrice – di essere più tranquillo, più protetto e di avere uno strumento di deterrenza».
Da una delle specialità sanitarie più a rischio a una che si potrebbe definire un’isola felice sul fronte violenza: l’odontoiatria. Ma è davvero così? A sfatare un luogo comune è stato il presidente della CAO veneziana e componente della CAO nazionale Giuliano Nicolin che, ripercorrendo la propria decennale carriera, ha ricordato un solo caso grave di violenza fisica, madre e figlia che hanno distrutto la sala d’attesa di un collega, «mentre l’aggressione verbale – ha aggiunto – per noi è abbastanza usuale. Se il paziente ha qualcosa che non va, torna in studio, te lo dice, tu provvedi e lì finisce la storia».
Sul fronte odontoiatrico qualche dato c’è, seppur fermo al 2023, e dice che anche in questo ambito le violenze stanno aumentando. La più spiccata differenza con tante altre specialità sanitarie è che praticamente tutti i dentisti in Italia lavorano come privati. «Noi – ha spiegato il dottor Nicolin – abbiamo la necessità di attrarre i nostri pazienti, dobbiamo fare in modo che ci scelgano. Questo, però, ci dà anche la possibilità di difenderci da certi tipi di persone. Siamo in qualche modo più abituati a cogliere il paziente “pericoloso”».
Le aggressioni per lo più verbali, però, ci sono e sono legate in particolare ai costi, alle aspettative disattese – in tempi recenti tanti i contenziosi legati ai trattamenti estetici odontoiatrici – ai tempi della cura e alle eventuali complicazioni. «Anche da noi – ha raccontato – la quota rosa è maggioritaria e spesso la violenza verbale si scatena sulla segretaria e sull’assistente alla poltrona».
Dal dottor Nicolin anche una riflessione sui pazienti sempre più esigenti, «a cui bisognerebbe spiegare che noi non guariamo nessuno, noi in realtà curiamo», e sull’importanza del dialogo con le persone «perché, certo, i dati servono, ma solo ascoltando il paziente lo si inquadra. Spesso la fiducia del paziente nel suo medico – ha concluso – fa di più per la cura della sua malattia che il medico con tutti i suoi rimedi».
Spiegare le origini della violenza contro gli operatori sanitari, infine, il compito dell’ultimo relatore del convegno, Gabriele Gasparini, primario di Radiologia degli ospedali del Veneto Orientale e presidente della Fondazione Ars Medica dell’Ordine, che ha passato in rassegna i tanti diversi tipi di violenza presenti nella società attuale perché «l’operatore sanitario – ha avvisato – fa parte della società. Noi lavoriamo per la gente, quindi dobbiamo capirla. Questo è un grande difetto del medico: non si rende conto che lavora per la gente. Se la società cambia, tu devi adattarti».
Tanti e diversi i tipi di violenza nella società di oggi, da quelle più comuni – fisica, psicologica, emotiva e verbale – a quelle in rapida crescita negli ultimi decenni – sessuale, economica, sociale e culturale. Il dottor Gasparini, però, si è soffermato sulle forme più nuove: la violenza digitale, «che è l’epifenomeno dell’aver modificato la società introducendo il virtuale», e quella istituzionale, «che esiste, bisogna imparare a riconoscere e soprattutto a risolvere più che combattere». E poi ancora: la violenza domestica o familiare, che colpisce soprattutto le donne e i figli, e quella strutturale, che in Italia nasce dalle enormi diseguaglianze.
«Il problema dunque – la riflessione del relatore – è complesso e lo diventa ancora di più se riguarda gli ambienti sanitari» in particolare quelli in cui c’è un sovraccarico di servizi e un’alta tensione emotiva. Da mettere in conto, poi, anche la scarsa preparazione in particolare dei giovani su come comunicare una diagnosi, una difficile comunicazione anche tra colleghi, i turni massacranti, le aspettative talvolta irrealistiche dei malati.
«Sarebbe importante però – ha spiegato il dottor Gasparini – smettere di dire alle persone che nella sanità italiana è tutto per tutti. Non è così. C’è un individualismo sempre più sfrenato, una sfiducia enorme perché è tutto un diritto: l’utenza è diventata consumatrice».
All’origine della violenza negli ambienti sanitari c’è anche lo scarso rispetto degli uomini per le donne: i primi, sentendosi più forti, aggrediscono. Tra gli altri temi affrontati l’idea che la violenza sia comunque insita nella natura umana, l’accelerazione tecnologica che in sanità da un lato porta tanti benefici, dall’altro mette in crisi rapporti umani e relazioni, aumenta la distanza emotiva e fa crescere a dismisura le aspettative, le difficoltà manageriali e la disorganizzazione strutturale.
«In tanti film di fantascienza – ha concluso il relatore – a un certo punto il medico sparisce. In realtà il medico sparisce perché il medico del futuro in marcia in questa violenza non potrà essere il medico di oggi. Dobbiamo andare avanti».
La violenza contro gli operatori sanitari, dunque, non è solo un fenomeno in crescita, ma che ha anche radici culturali profonde in una società in cambiamento, che va studiata, capita e a cui i professionisti della salute devono in qualche modo adattarsi. «Si comincia a dare al tema – la conclusione del dottor Cristiano Samueli – confini sempre più precisi. Oggi abbiamo iniziato insieme un percorso e dimostrato di essere una categoria unita e compatta che cerca di trovare insieme risposte e soluzioni efficaci e condivise. Da qui parte un messaggio forte: giù le mani da chi cura. Rispettiamo chi lavora per noi. Preveniamo la violenza e proteggiamo la salute di chi salva le vite».
Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia