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Solo investendo di più sui professionisti e lavorando in squadra si garantirà davvero la tutela della salute dei cittadini. È questa la riflessione forte – che si trasforma anche in un appello al mondo politico – emersa durante il convegno Assistenza sanitaria: la prospettiva delle nuove necessità e le relative soluzioni, che si è svolto lo scorso 8 febbraio nella splendida cornice della Sala San Domenico alla Scuola Grande di San Marco, nell’Ospedale Civile di Venezia, organizzato per l’Ordine lagunare dal presidente e vice nazionale Giovanni Leoni.
Una mattinata di studi sul destino della sanità in Italia – con il patrocinio della FNOMCeO e delle due aziende sanitarie veneziane, l’Ulss 3 Serenissima e l’Ulss 4 Veneto Orientale – che ha visto sbarcare in laguna buona parte dei big nazionali della professione, chiamati a un confronto serrato per trovare strategie condivise per uscire dalla crisi e rispondere in modo efficace ai nuovi bisogni di salute della popolazione. In sala anche alcuni presidenti degli Ordini veneti: Stefano Capelli, presidente di OMCeO Belluno, Luigi Faggian, alla guida dell’Ordine di Treviso, e Alfredo Guglielmi di OMCeO Verona.
«Sono argomenti – ha sottolineato proprio il presidente Leoni accogliendo i partecipanti – che da tempo finiscono sulla stampa tutti i giorni. Negli ultimi due anni e mezzo la sanità ha avuto una grande attenzione da parte del pubblico, dei giornali, del mondo politico. Le condizioni di salute oggi, in Italia ma anche nel resto del mondo, devono tener conto di tanti fattori a partire dagli impegni economici e dalle disuguaglianze».

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Le istituzioni a difesa della salute
Un convegno che si è aperto con uno sguardo rivolto al vecchio continente, grazie al collegamento con Chris Brown, capo dell’ufficio europeo dell’OMS per gli investimenti in salute e sviluppo, che ha sottolineato i vantaggi che potrebbero derivare dalle innovazioni tecnologiche, ma anche la sfiducia dilagante nella scienza, l’ansia e lo stress che patiscono i giovani, gli anziani soli e le nuove povertà, tra le sfide sanitarie e sociali da affrontare subito, secondo la rappresentante dall’OMS.
«Queste sfide – ha spiegato – ci obbligano a ripensare al modo in cui proteggiamo e promuoviamo la salute. Tre, secondo me, le possibili soluzioni: trattare le persone nel contesto più ampio in cui vivono, quindi non solo medico ma anche sociale ed economico; declinare la prevenzione anche sulla creazione di luoghi sani, per vivere in comunità sicure, con spazi verdi, case adatte a resistere a eventi meteorologici estremi, accesso al cibo e ai mezzi di sostentamento a prezzi accessibili; infine dare valore e qualità agli interventi pubblici per ritrovare la fiducia e proteggere il capitale economico, sociale e umano».

Assenti per altri impegni istituzionali, hanno voluto comunque far sentire la loro vicinanza ai medici i vertici della sanità veneta, il presidente Luca Zaia e l’assessore alla Salute Manuela Lanzarin, che hanno inviato due lettere di saluto, sottolineando come il convegno rappresenti «un’opportunità unica per riflettere sulle sfide attuali e future del nostro sistema sanitario e per individuare soluzioni innovative che possano rispondere alle esigenze della comunità, tanto quelle presenti quanto quelle emergenti».
A rappresentare la Regione in sala San Domenico c’era comunque l’avvocato Francesca Scatto, presidente della VI Commissione, che, richiamando l’articolo 32 della Costituzione, la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, ha rispolverato i principi di universalità, equità e solidarietà del Servizio Sanitario Nazionale. «Un diritto – ha spiegato – che non può esserci tolto, ma che evolve con l’evolversi della società e delle mutate esigenze. L’assistenza sanitaria ha nuove necessità: la gestione della popolazione che invecchia, l’innovazione tecnologica, l’accessibilità ai servizi… Insomma, l’assistenza non riguarda più solo la cura delle malattie, ma anche la prevenzione e il benessere». Un nuovo concetto di assistenza, dunque, «ma ciò che non deve venire mai meno – ha concluso la presidente Scatto – è l’idea di assistere: stare vicino, un approccio umano e inclusivo».

Ha puntato, invece, la sua attenzione sulla sostenibilità del sistema italiano di welfare e sulla carenza di personale sanitario l’assessore alla Coesione sociale del Comune di Venezia Simone Venturini. «Questa – ha aggiunto – è un’importante occasione di confronto per evidenziare problematiche che devono essere risolte trovando soluzioni innovative». Dall’invecchiamento della popolazione alle future Case della Comunità, per alleggerire il carico degli ospedali, dalla sanità privata al personale prossimo alla pensione «è indispensabile – ha aggiunto – cercare di attirare talenti per avere un efficace ricambio generazionale. Tutte questioni che molto spesso non riescono a emergere per la loro complessità».

A sostenere con convinzione il convegno anche le due aziende sanitarie locali con il saluto di Mauro Zulian, direttore del distretto lagunare dell’Ulss 3 Serenissima, che ha ricordato l’approdo l’anno prossimo di un nuovo corso di laurea in Medicina e Chirurgia in lingua inglese proprio a Venezia, e di Simona Sforzin, direttore dei Servizi Sociosanitari dell’Ulss 4 Veneto Orientale. «Nell’attuale contesto – ha sottolineato quest’ultima – estremamente fluido e particolarmente conflittuale, dobbiamo salvare tutto quello che abbiamo costruito, un sistema sanitario nazionale non alle macerie, ma di sicuro con qualche problema di tenuta edilizia. Noi medici abbiamo un grande responsabilità: non possiamo abdicare alla cooperazione tra noi. Dobbiamo parlare di progettazione, di programmazione, di idee, in libertà».

Da cosa si parte
Il contesto da cui si delineano i nuovi bisogni di salute della popolazione, come ha chiarito il presidente Leoni aprendo i lavori del convegno, sono chiari: l’Italia è uno dei paesi più longevi del mondo dopo il Giappone e ha la percentuale più alta di cittadini over 65, il 24%. Un dato che tende ad aumentare costantemente: 3 milioni in più negli ultimi 10 anni. «Dopo i 65 anni poi – ha aggiunto – oltre il 50% delle persone ha una o due patologie croniche. Una tendenza ormai inesorabile».
Dall’altro lato la consistente perdita di posti letto, 40mila in un decennio, e i 30mila medici dipendenti che mancano. «La missione 6 del PNRR – ha proseguito – dice ci sarà una progressiva riduzione dei medici ospedalieri da integrare nelle Case della Comunità… Come riuscirci in questo contesto la vedo veramente dura».
Dal presidente Leoni, infine, anche un accenno alla realtà sanitaria veneziana, alle difficoltà di chi vive o lavora a Murano, Torcello, San Pietro in Volta, o a Pellestrina. «Spero – il suo auspicio – si possa trovare una soluzione adeguata ai bisogni emergenti, soprattutto per i residenti in questi tessuti sociali che alla fine, tra overtourism e depauperamento di varie attività diventano zone disagiate».

Le criticità della professione e i nuovi bisogni di salute
Tutta dedicata a definire il contesto dei nuovi bisogni di salute la prima sessione del convegno, moderata da Roberto Merenda, direttore del Dipartimento chirurgico dell’Ospedale Civile di Venezia, e da Roberto Monaco, segretario della FNOMCeO. Introducendo i relatori, il primo ha sottolineato come «il boom dell’età avanzata a Venezia, città degli ottantenni, sia esplosivo» e come Venezia sia spesso una città isolata.
«In Italia – ha precisato il segretario Monaco – quello che serve veramente è la cultura della tutela della salute. Quello che noi vorremmo è la condivisione con il mondo politico. Ripenso alle parole di Sant’Agostino: “La speranza ha due figli: l’indignazione e il coraggio”. L’indignazione per capire ciò che non ci piace e il coraggio per cambiarlo».

Con un’ampia e approfondita analisi delle criticità della professione, il presidente della FNOMCeO Filippo Anelli, in collegamento video, ha inquadrato il contesto in cui si muovono in Italia i nuovi bisogni di salute, soffermandosi:

  • sulla crisi di fiducia che colpisce la scienza, «che porta a rifugiarsi nei miti e non nelle evidenze»;
  • sul tempo come variabile fondamentale, «il tempo di comunicazione come tempo di cura», oggi principio poco applicato, che non consente di arrivare a una «condivisione sulle cure, a una decisione responsabile anche da parte del paziente»;
  • sul medico percepito più come un tecnico che come un professionista intellettuale, che deve veder garantita la propria autonomia nelle scelte;
  • sulla medicina amministrata, «con vincoli a quella stessa autonomia introdotti per rispondere agli obiettivi di bilancio»;
  • sul recentissimo dibattito che riguarda il passaggio dalla libera professione convenzionata alla dipendenza dei medici di famiglia «che stravolge il rapporto di fiducia»;
  • sulle risorse del PNRR, ben 15 miliardi destinati alla sanità «che, però, non hanno dato risposte reali al bisogno di garantire più salute ai cittadini. Perché? Perché cambiare una risonanza o introdurre una piattaforma informatica da sola non risolve nulla».

In cima alla liste delle cause della crisi anche il continuo definanziamento negli ultimi 10 anni della sanità, che ha portato alla carenza di personale, alla fuga dei medici dalla sanità pubblica e all’aumento del lavoro precario, e gli errori nella programmazione. «La salute dei cittadini – ha quindi spiegato il presidente Anelli – si garantisce investendo sul personale. È tempo che le risorse siano impiegate per aumentare e per migliorare il rapporto con i professionisti e le loro retribuzioni. Anche sul territorio la professione medica oggi non la si può più esercitare da soli. Bisogna lavorare insieme con gli altri operatori sanitari, con gli infermieri e gli specialisti».
Prima di concludere anche un accenno ai diritti e alla democrazia. «Il personale sanitario – ha sottolineato il presidente Anelli – deve partecipare alla programmazione e alla gestione della salute, perché la salute è un pezzo della nostra democrazia. Io spero, allora, che si valorizzino sempre di più i professionisti, che i cittadini vedano tutelato il loro diritto alla salute, grazie alle competenze dei medici, e che sappiamo cogliere le opportunità straordinarie dell’innovazione tecnologica per arrivare alla medicina personalizzata e a una maggiore efficienza. Noi con la nostra autonomia garantiamo i diritti ai nostri cittadini».

Ma, allargando un po’ lo sguardo oltre confine, cosa succede in Europa? A spiegarlo Luigi Bertinato, senior consultant dell’ufficio europeo dell’OMS per gli investimenti in salute e sviluppo, che ha sede proprio a Venezia. «La salute – ha detto subito – non è tema di una della singola nazione: pensate alla grandissima mobilità dei cittadini, dei pazienti, dei turisti e anche alla grandissima opportunità di confronto tra modelli organizzativi che abbiamo in Europa».
Una delle questioni importanti, allora, su cui ragionare è l’evoluzione dei determinanti sociali ed economici della salute: come investire le risorse pubbliche e private per migliorare il benessere umano, sociale, economico e planetario di tutti.
Tra le priorità più importanti per i cittadini indicate da un’indagine di Eurobarometro: l’economia, con la creazione di posti di lavoro, la povertà, l’esclusione sociale, e, appunto, la salute pubblica. Da qui il tema delle diseguaglianze legate proprio alla salute: da un lato la precarietà, la disoccupazione e i salari bassi che danneggiano la salute dei giovani e le loro prospettive, dall’altro un’ingiusta distribuzione di opportunità e risorse da parte degli Stati. E poi, a pesare, è il contesto demografico: 206 milioni di over 65 già adesso, che diventeranno 288 milioni nel 2050 e in quello stesso anno addirittura 65 milioni di over 85.
Per una corretta programmazione, insomma, non va valutato solo l’andamento delle malattie. Uno strumento utile può essere l’Health Equity Status Report, che viene realizzato proprio a Venezia, cioè il rapporto sull’equità in Europa. «Gli indicatori che analizziamo – ha spiegato il dottor Bertinato – sono legati all’impatto dei servizi sanitari, alla sicurezza e alla protezione sociale e finanziaria, alle condizioni di vita e di lavoro, al capitale umano e sociale. Ma cosa impedisce alle persone in Europa di godere di buona salute e di una vita dignitosa? Nel 10% dei casi sono le diseguaglianze nell’accesso alla qualità dell’assistenza sanitaria».
Solidarietà , equità e partecipazione sono dunque «fondamentali ha concluso il rappresentante di OMS Europa – per realizzare sistemi sanitari resilienti e sostenibili, economie di benessere. Ma soprattutto per non lasciare indietro nessuno».

Proprio sulle risorse destinate alla sanità e su come vengono non spese o spese male ha concentrato invece l’attenzione don Massimo Angelelli, direttore della Pastorale della Salute della Conferenza Episcopale Italiana, chiamato ad analizzare il tema del ripristino dell’universalità delle cure. «Ci continuano a dire – ha esordito – che bisogna rassegnarsi, che le risorse sono limitate, che non possiamo curare tutti, che siamo chiamati a fare delle scelte. Beh, io rifiuto questo scenario».
Per il sacerdote, insomma, non è solo questione di soldi per risolvere i problemi, «ci vogliono idee e visioni nuove. Abbiamo le risorse del PNRR, ma in realtà non sappiamo come spenderle. In sanità serve un pensiero coraggioso, un pensiero nuovo che metta insieme la diverse contraddizioni, le nuove esigenze di salute dei cittadini e anche i diritti dei curanti. Serve una costituente per la salute, un modello alto. Non so se riusciremo a curare tutti, ma voglio provarci prima di rassegnarmi».
Non nasconde, don Angelelli, le distorsioni di un sistema che vede lo Stato incassare risorse da prodotti altamente nocivi, il gioco o i tabacchi per dire, e i risultati del continuo sottofinanziamento in Italia della sanità. «Sono risorse – ha aggiunto – che che vengono spese in maniera assolutamente impropria. Si continua a mettere acqua in un secchio che è evidentemente bucato».
Prima di concludere una riflessione anche sull’escalation di aggressioni al personale sanitario degli ultimi tempi. «Le violenze sui sanitari – ha detto don Angelelli – non sono contro una categoria. Non siete voi i destinatari di quei pugni e di quelle botte. È una rabbia sociale che emerge dalla popolazione, che cresce quando il popolo prende coscienza di non riuscire ad avere tutela dei suoi diritti. Se la prendono con i primi che incontrano… Dobbiamo provare a recuperare quei 4 milioni e mezzo di italiani che decidono di non curarsi. Forse non riusciremo davvero a curare tutte, ma almeno avremo la coscienza di poter dire di aver fatto il possibile».

Ad attendere da anni una seria ed efficace riorganizzazione sono le cure territoriali, balzate al centro delle cronache nelle ultime settimane per il dibattito che si è scatenato sul passaggio per i medici di famiglia da un rapporto di lavoro da liberi professionisti convenzionati a quello di dipendenti delle strutture sanitarie: le regioni a fare pressing in questo senso, le barricate della categoria per difendere la propria autonomia e il rapporto fiduciario con i pazienti.
Un gioco che muove le fila dalla necessità di “riempire” di personale le Case della Comunità, nuove strutture sparse sul territorio, 99 in Veneto, finanziate dal PNRR, che dovranno essere operative entro la metà del 2026. «E io – l’esordio di Maurizio Scassola, ex segretario di FIMMG Veneto – colgo l’occasione delle Case della Comunità per offrirvi un altro punto di vista: noi non siamo contrari alle nuove strutture, vogliamo solo che siano riempite di significato».
Un nuovo punto di vista che parte da uno studio realizzato dal sindacato con la CGIA di Mestre per geolocalizzare, attraverso mappe differenziate per provincia e incrocio dei dati legati anche agli indici di vecchiaia della popolazione, gli attuali ambulatori dei medici di famiglia presenti sul territorio e la distribuzione delle future Case della Comunità «che hanno significato – ha aggiunto – solo se riempio di significato il territorio. In Veneto, regione europea di eccellenza, il 35% dei medici di famiglia lavora ancora da solo, senza segretaria o infermieri. E questo non è accettabile».
I risultati dicono, ad esempio, che in molti casi il tempo di percorrenza di un cittadino per raggiungere la propria Casa della Comunità di riferimento supererà i 30-40 minuti. «Allora io mi chiedo – ha proseguito il dottor Scassola – come un abitante dell’Agordino possa andare liberamente e in autonomia ad esercitare i propri diritti socio-assistenziali a Belluno, a tre quarti d’ora di distanza. Per questo è importante riorganizzare la periferia, i luoghi dispersi del territorio, quelli meno densamente abitati».
Per farlo, però, serve il sostegno della politica, la Regione in questo caso, per mettere a disposizione dei medici di famiglia tecnologia di supporto e personale di studio che a rotazione copra quel territorio. «Non possiamo – ha concluso il relatore – lasciare solo l’individuo, lasciare la persona in un labirinto, senza orientamento, con una serie di ostacoli rispetto al proprio bisogno di salute e alle risposte necessarie».

Ad approfondire il contesto veneto l’analisi di Claudio Costa, direttore delle Risorse umane della Regione, che si è soffermato soprattutto sul problema della carenza di personale sanitario che da un lato, sul territorio, condiziona la concreta attuazione del DM77, dall’altro mette in discussione l’organizzazione ospedaliera. «Una carenza – ha aggiunto – in particolare degli infermieri e degli specialisti che, se non interveniamo per tempo, metterà in crisi sistemica la sanità. Deve essere affrontata con il piano strategico nazionale e non con singoli interventi che rischiano di essere solo palliativi. Bisogna andare alla radice dei problemi».
Se, però, il numero di medici e infermieri, è superiore a quello di un decennio fa, a cosa è dovuta la crisi? A una serie di fattori: l’anzianità dei professionisti, l’aumentata mobilità dei camici bianchi, le dimissioni volontarie, «in crescita tra i medici soprattutto quelle inattese, cioè non legate alla pensione», il disequilibrio nella distribuzione geografica dei professionisti, con la carenza più accentuata nelle aree rurali e svantaggiate, la frammentazione delle professioni sanitarie (31) e delle specializzazioni mediche (51), «che crea troppa rigidità, quando invece avremmo bisogno di più flessibilità», gli stipendi più bassi della media europea e la sempre più scarsa attrattività delle professioni sanitarie con i posti di specialità o quelli disponibili a concorso che non vengono coperti.
«In Veneto – ha sottolineato il dottor Costa – da qui al 2030 rischiamo di dover chiudere 5 ospedali. Intervenire sulle professioni sanitarie rendendole più attrattive, diventa fondamentale. Altrimenti si dovrà reclutare all’estero». E il Veneto, proprio per affrontare la carenza di personale, ha adottato un piano strategico, analizzando i dati e indicando una serie di azioni da realizzare sia a livello regionale che aziendale. «Ovviamente però – la conclusione del dottor Costa – non possiamo sperare di farcela da soli. Per affrontare queste criticità bisogna attivare un piano strategico a livello nazionale, coinvolgendo tutti gli stakeholder interessati: le istituzioni, il mondo professionale e quello sindacale».

Le possibili soluzioni da chi lavora sul campo
Definito il contesto, la parola è passata a chi lavora sul campo nella seconda sessione del convegno, moderata da Maurizio Scassola e da Filippo Stefani, consigliere della CAO veneziana e presidente di ANDI Venezia, che ha approfittato dell’occasione per sottolineare anche le nuove sfide a cui è chiamata l’odontoiatria italiana, dall’assistenza domiciliare per i pazienti fragili all’impossibilità delle cure dentistiche per una fetta sempre più ampia di popolazione, dall’intensificazione dei programmi di educazione e prevenzione orale all’uso della tecnologia e, in particolare, dell’intelligenza artificiale. «Ridurre i costi e migliorare la qualità delle cure – ha sottolineato il dottor Stefani – è possibile: bisogna lavorare per rendere l’assistenza pubblica accessibile, favorire una maggiore integrazione dell’odontoiatria nei sistemi sanitari nazionali, sostenere la ricerca e lo sviluppo. Le nuove necessità in ambito odontoiatrico, insomma, richiedono un approccio proattivo, innovativo e inclusivo». (Leggi qui il suo intervento integrale).

Sono 4, secondo Pierino Di Silverio, segretario nazionale di ANAAO ASSOMED, in collegamento video, i fattori che hanno determinato la crisi professionale: il fattore economico, cioè gli stipendi troppo bassi, la responsabilità penale dell’atto medico – «siamo l’unico paese al mondo oltre al Messico ad averla» – l’organizzazione del lavoro negli ospedali, «sempre più gravata da oneri burocratici», e il disequilibrio tra il tempo del lavoro e quello di vita «che sostanzialmente fa sentire i medici in gabbia».
I dati parlano chiaro: 9mila i colleghi che in un anno e mezzo hanno abbandonato gli ospedali, 1.500 quelli emigrati all’estero. E l’Italia, invece, è appetibile per i camici bianchi stranieri? In realtà sì, ma soprattutto per quelli che provengono da paesi in cui il servizio di cure è tendenzialmente meno sviluppato, meno organizzato e meno retribuito. «Quindi il problema – ha aggiunto il sindacalista – è rendere appetibile il sistema per i medici che vivono in Europa».
Un panorama complesso, quello tracciato dal relatore, tra la spinta vertiginosa alle cure out of pocket – «se il cittadino ha i soldi si cura, se non li ha no» – il sempre più difficile accesso ai servizi sanitari, l’éscalation di aggressioni al personale sanitario, il mancato riconoscimento sociale del medico, il burnout, che colpisce il 51% dei camici bianchi.
«Le cure che eroghiamo oggi – ha sottolineato Di Silverio – non rispondono più alle esigenze della popolazione. Questo prima di tutto a causa di una legislazione obsoleta, che non risponde più alle necessità né del paziente né del professionista». In seconda battuta perché l’assistenza ospedaliera e quella sul territorio sono scollegate e perché non si fanno emergere due fattori chiave dell’assistenza: la cronicità e la prevenzione.
Per risolvere, dunque, il problema della fuga dei medici, serve una doppia azione: «Un nuovo patto della salute nel nostro Paese – ha concluso il sindacalista – che rimetta in discussione il concetto di presa in carico del paziente e un profondo investimento culturale nel professionista che oggi ha esigenze diverse: conciliare, per esempio, tempo di lavoro e di vita, sburocratizzare la sua azione e avere tempo di cura. La sanità pubblica si salva solo adeguandola ai tempi».

Di medico “ostaggio” di tante componenti ha parlato all’inizio del suo intervento Guido Quici, presidente nazionale di CIMO-FESMED, soffermandosi sulle aspettative professionali del medico che lavora in un’organizzazione complessa e con tecnologie complesse, “imbavagliato” però dalla burocrazia, dalla carenza di risorse, dalla medicina amministrata e dalle denunce. Un medico, invece, che, ispirandosi al Codice Deontologico, dovrebbe occuparsi di efficienza clinica, di efficacia, sicurezza, umanizzazione e accesso alle cure.
Le prestazioni aggiuntive, la conciliazione tra vita familiare e professionale, la sicurezza delle cure, che deve essere garantita in primis dalle aziende sanitarie, l’aggiornamento e la formazione, il tempo di ascolto come tempo di cura – «troppo poco tempo si ha a disposizione, non solo per l’atto clinico, ma soprattutto per l’ascolto del paziente» – il consenso informato tra i temi sollevati dal relatore.
«Il fallimento del PNRR, dal mio punto di vista – ha aggiunto il dottor Quici – sta nel fatto che la missione 6, quella sulla salute, dialoga poco o nulla con le altre. Parliamo tanto di ottica One Health, ma non c’è nessun dialogo tra le missioni. Manca il raccordo. Bisogna avere una visione di insieme». Un cambiamento da cavalcare e non da subire, in cui il medico si integra con gli esperti di ingegneria bio-meccanica, di robotica, di microbiologia, di terapie genetiche, senza fare una guerra tra professionisti.
Dal dottor Quici anche qualche anticipazione su un dossier di prossima presentazione da parte del sindacato sulla percezione da parte degli ospedalieri, a 5 anni dal Covid, del loro lavoro e del futuro della sanità. Durante la pandemia il 77% degli intervistati aveva aspettative migliori sulla propria professione, 74% sulla carriera, 83% sul guadagno. Dopo 5 anni un crollo verticale e una disillusione dilagante: 15% sulla propria professione, 8% sulla carriera, 2% sullo stipendio.
«Per gratificare un medico allora – la conclusione del sindacalista – bisogna recuperare il rapporto fiduciario con il paziente, dare più autonomia nelle scelte terapeutiche e più libertà nell’esercizio della professione, riconoscere e valorizzare, anche con la retribuzione, la centralità del ruolo del medico».

Il Pronto Soccorso come soluzione finale da parte dei cittadini che non ricevono risposte adeguate in termini di salute il tema approfondito da Biagio Epifani, giunto ormai al termine del suo mandato da presidente di SIMEU Veneto, che ha esordito citando un pensiero proprio del presidente dell’Ordine Giovanni Leoni: «Oggi, in Pronto Soccorso, non vuole lavorare nessuno: i turni sono massacranti, le paghe basse e le litigate con gli utenti impazienti all’ordine del giorno. E così si assiste a un fuggi fuggi che lascia sguarniti interi reparti».
Anche in questo ambito i numeri parlano chiaro:

  • il 70% dei posti nella scuola di specializzazione resta deserto;
  • 145 i posti messi a bando nel luglio 2023 da Azienda Zero, 97 a gennaio 2025: il 36% coperti allora, il 44% oggi;
  • altissimi i tassi d’accesso che in Veneto veleggiano per 7 aziende sanitarie sopra alla media nazionale e in tre aree superano addirittura il 90%.

A pesare sull’attività dei Pronto Soccorso, però, sono anche la gestione dei codici bianchi, affidata sempre più a medici in formazione o con specialità diverse dall’emergenza-urgenza, il boarding, cioè il numero di pazienti che aspetta il posto letto in reparto, i rapporti con la medicina territoriale – «dobbiamo uscire dal conflitto» – la perdita di autorità del medico, il problema degli organici e le, sacrosante, esigenze dei giovani dottori.
Tra le possibili soluzioni proposte da SIMEU, l’Overcrowding, già utilizzato in Veneto, cioè la possibilità per ciascuna unità operativa di offrire giornalmente lo stesso numero di posti letto a garanzia di quelle che sono le esigenze del Pronto Soccorso. «Ma abbiamo bisogno anche – ha precisato Epifani – di un gruppo tecnico dentro alle aziende che possa confrontarsi sulle varie dinamiche, sui tempi di gestione… Non possiamo più pensare di dare i 28 minuti al paziente quando ne servono almeno 40-50 per pazienti allettati, con anchilosi, con malattie croniche. E poi serve uno studio sui picchi di flusso».
La gestione può passare attraverso lo spostamento temporaneo di personale recuperabile da servizi non essenziali, una figura ad hoc per governare i ricoveri e l’ampliamento della fascia oraria per i ricoveri stessi, l’attivazione di posti letto suppletivi, il controllo dei criteri di appropriatezza e l’applicazione di parametri e criteri valutativi più aderenti all’attività della medicina d’urgenza.
«Ma per noi – la conclusione del dottor Epifani – la soluzione organizzativa è il medico unico dell'emergenza, che a seconda dell’età professionale e anagrafica può passare dal buttarsi in un fossato in un giorno di pioggia a gestire magari il paziente in osservazione. Oggi, se vogliamo salvare l’emergenza, dobbiamo togliere una parte di pazienti che da noi rischiano anche di vedere peggiorate le loro condizioni».

Il problema? La carenza di personale. Il capro espiatorio? I cosiddetti gettonisti. «Noi, invece, cerchiamo di essere una delle potenziali soluzioni». A mettere subito le cose in chiaro Matteo Zanella, CEO di Mst Group, chiamato ad approfondire il tema delle cooperative e delle società private nell’esternalizzazione dei servizi, con l’obiettivo di trovare un giusto punto di equilibrio. «A noi piace definirci come partner – ha aggiunto subito – nei confronti delle aziende pubbliche o private perché se non c’è una partnership, non c’è la capacità di lavorare assieme».
Quella da lui guidata è una società gestita da medici in un’ottica benefit, che reinveste cioè parte degli utili a favore della comunità, che cerca di individuare le esigenze di salute e costruire intorno una soluzione che diventi un servizio, che offre ai propri professionisti tutta una serie di vantaggi, dall’alloggio per riposarsi, ad esempio, all’assistenza negli spostamenti.
I numeri dicono molto:

  • 22 gli ospedali in cui Mst Group lavora;
  • 2 le strutture private convenzionate;
  • circa 280 professionisti tra medici e infermieri;
  • poco più di 8mila turni coperti nel 2023, 14mila nel 2024, con un trend in crescita;
  • circa 4.500 le cooperative in Italia, con oltre 200mila lavoratori e un fatturato nel 2021 di quasi 12 miliardi e mezzo di euro, che gestiscono il 60% dell’assistenza domiciliare e fino al 40% dei servizi di emergenza-urgenza.

Esterni, poi, che non vengono impiegati solo nel pronto soccorso, ma sempre di più anche in pediatria, ginecologia e ortopedia.
Chi sceglie di lavorare nelle cooperative ha un’età media piuttosto bassa, 45 anni, ed è in prevalenza donna. «Noi – ha sottolineato il dottor Zanella – siamo più attrattivi, soprattutto per i giovani. E allora, forse, andrebbe fatto un ragionamento su quale sia la forma che attrae di più i nuovi professionisti. Ovviamente non tutto è oro quello che luccica ed è per questo che cerchiamo di lavorare per migliorare. Sicuramente un aspetto vantaggioso è l’efficienza: abbiamo più capacità di recuperare personale, di metterlo a lavoro e di farlo rapidamente». Tra gli altri vantaggi anche una maggiore flessibilità, modulando il personale in base alla necessità, e la sostenibilità economica.
Quali, allora, le sfide che attendono il settore? «Noi – ha sottolineato il relatore – dobbiamo cercare di garantire una qualità dei servizi e puntare sulla formazione del personale. Dobbiamo fare in modo che sia sostenibile economicamente e finanziariamente per le aziende. Dobbiamo rendere un servizio che sia congruo e che possa essere costo efficace. Dobbiamo cercare trasparenza e controllo nella gestione dei servizi. Dobbiamo essere i primi a richiedere il monitoraggio da parte di chi ci chiede il servizio».
Dalle finte cooperative che rendono un servizio inadeguato al sistema degli appalti da migliorare, dall’alleggerimento dei pronto soccorso, fornendo personale ad hoc per i codici bianchi, al tentativo del ministro Schillaci di limitare i gettonisti nelle strutture pubbliche, tanti i temi sollevati da Matteo Zanella. «Ma il ruolo delle società private e delle cooperative – ha concluso – attualmente è fondamentale. C’è bisogno di un piano strategico, di più sinergia per cercare di capire come creare questa partnership per mantenere i servizi. Ci deve essere una forte collaborazione tra pubblico e privato perché serve a migliorare la qualità e garantire un servizio adeguato per il paziente».

E proprio ai pazienti, al ruolo che giocano all’interno della sanità, al loro grado di consapevolezza, è stata dedicata la chiusura del convegno. A parlarne Lorenzo Mattia Signori, segretario regionale CittadinanzAttiva Veneto, che ha subito auspicato una collaborazione fattiva con i rappresentanti della categoria medica, per «essere interlocutori più attenti e sicuramente portare avanti insieme in sinergia le nostre attese e le nostre aspirazioni».
A partire, ad esempio, dalla nuova piattaforma per le liste d’attesa che permetterà ai cittadini di verificare quali siano i tempi per determinate prescrizioni, su cui l’associazione si sta spendendo con serate formative e informative per educare e insegnare quale sia il corretto approccio in sanità, per spiegare cosa sia un’impegnativa dematerializzata, come funzioni, se e quando i cittadini abbiano diritto al rimborso per le prestazioni non erogate nei tempi giusti.
Un focus anche sul nuovo numero europeo 116117, in fase sperimentale in Veneto, che funziona 24 ore su 24: un numero per trovare un interlocutore preparato e formato, che riesce a capire se ci sia davvero un’urgenza sanitaria immediata o se invece possa essere delegata al giorno successivo, che può gestire un’esigenza di natura sociale, il cambio del medico o l’assegnazione di ausili.
«Il cittadino – ha sottolineato Signori – vuole essere rassicurato, vuole che ci sia qualcuno che si preoccupi della sua salute. Non si può andare dal medico e vedere che quello manco ti guarda… E questo succede. Certo, poi, anche i pazienti non devono andare dal medico e pretendere di fare le risonanze… Noi crediamo ancora che il Servizio Sanitario Nazionale sia un privilegio, di cui essere orgogliosi. Lo dobbiamo difendere, sapendo che siamo in un momento di crisi, dobbiamo rimboccarci le maniche, lavorando tutti quanti insieme per darci un sostegno reciproco».

«Tutti noi – la riflessione conclusiva di Giovanni Leoni, tirando le fila del convegno – potremmo un giorno diventare pazienti. Di notte o nei festivi. Nessuno di noi in questa stanza è alieno dai problemi che oggi abbiamo raccontato e che, come abbiamo visto, sono aumentati. La povertà sanitaria è ovviamente un fenomeno che investe l’insieme delle relazioni umane. E poi l’universalità delle cure che viene garantita dalla Costituzione italiana e quindi è la democrazia. La salute non è né un bene pubblico né privato: è un bene comune. Dobbiamo lavorare non soltanto per gli stipendi, ma anche per dare dignità alla professione».

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia